
Molestie sessuali e giusta causa: quando la dignità personale fonda il licenziamento per giusta causa
(Un commento all’ordinanza Cass. civ., Sez. lav., 22 maggio 2025, n. 13748)
Con l’ordinanza n. 13748/2025, la Cassazione conferma il licenziamento per giusta causa di una lavoratrice responsabile di molestie sessuali verbali ai danni di un collega.
La Corte valorizza il rispetto della dignità personale come fondamento del rapporto di lavoro, richiamando l’art. 2119 c.c., la normativa antidiscriminatoria e il codice di condotta aziendale.
Il potere disciplinare, anche in assenza di precedenti, trova giustificazione nella tutela dei diritti fondamentali e nella necessità di garantire un ambiente di lavoro sicuro e rispettoso per tutti.
1. Introduzione: il contesto e il rilievo della decisione
L’ordinanza n. 13748 del 22 maggio 2025 della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, affronta con rigore esemplare il tema della giusta causa di licenziamento per molestie sessuali sul luogo di lavoro.
La vicenda si inserisce in un quadro giurisprudenziale che negli ultimi anni ha visto una crescente valorizzazione del rispetto della dignità personale dei lavoratori, non solo come principio di etica aziendale ma come fondamento giuridico dell’intero rapporto contrattuale.
La Corte richiama un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2119 c.c., secondo cui il recesso per giusta causa deve fondarsi sulla gravità intrinseca del fatto, alla luce dei valori sociali e costituzionali coinvolti.
In particolare, il principio di proporzionalità non può essere valutato esclusivamente in termini soggettivi o aziendalistici, ma deve tenere conto dell’effetto disgregante delle condotte lesive della dignità altrui.
2. I fatti di causa: la progressione del giudizio
La vicenda prende le mosse da un licenziamento per giusta causa comminato a una lavoratrice, accusata di aver rivolto ripetute frasi a sfondo sessuale a un collega.
Le condotte, confermate anche da testimoni, avevano generato imbarazzo e disagio relazionale nel team di lavoro.
Il datore di lavoro aveva applicato la sanzione espulsiva, in conformità al proprio codice di condotta aziendale.
Il Tribunale di Milano aveva confermato la legittimità del licenziamento.
Tuttavia, la Corte d’Appello, pur riconoscendo la materialità dei fatti e la loro sanzionabilità, ha ritenuto sproporzionata la misura espulsiva.
Ha valorizzato, in particolare, l’assenza di precedenti disciplinari e la non eccessiva incidenza negativa delle condotte sulla produttività o sull’immagine aziendale.
3. Il principio di diritto espresso dalla Cassazione
La Cassazione, investita del ricorso del datore di lavoro, cassa la sentenza della Corte territoriale, ritenendo che quest’ultima abbia omesso una corretta valutazione del contesto normativo e giurisprudenziale in cui si inserisce il licenziamento.
Secondo la Corte, la giusta causa non può essere esclusa solo per mancanza di precedenti disciplinari, laddove la condotta sia intrinsecamente lesiva di principi fondamentali dell’ordinamento.
Richiamando precedenti come Cass. civ., Sez. lav., 23 ottobre 2013, n. 24024, e Cass. 6 maggio 2016, n. 9255, si afferma che la rottura del vincolo fiduciario può ritenersi irreparabile anche per fatti isolati, qualora questi manifestino un grado di disvalore tale da rendere incompatibile la prosecuzione del rapporto.
Nel caso di specie, la Corte sottolinea come le condotte offensive abbiano avuto carattere reiterato e siano state perpetrate in un ambiente di lavoro che, in quanto comunità organizzata, impone il rispetto delle regole minime della convivenza civile e del decoro relazionale.


4. La rilevanza dei riferimenti normativi e contrattuali
La pronuncia si distingue anche per l’attenzione ai riferimenti normativi plurilivello che sostengono l’illiceità della condotta.
In primo luogo, viene richiamata la Direttiva 2002/73/CE, recepita in Italia con il D.Lgs. 198/2006, art. 26, che qualifica le molestie sessuali come una forma di discriminazione fondata sul sesso.
La Cassazione evidenzia che questa definizione impone al datore di lavoro non solo un dovere passivo di astenersi da condotte discriminatorie, ma anche un dovere attivo di prevenzione e repressione, in attuazione dell’art. 2087 c.c.
In secondo luogo, la Corte valorizza l’esistenza di un Codice di Condotta interno, conforme al Protocollo n. 5 del CCNL Calzaturifici, che impone la promozione di ambienti di lavoro rispettosi dell’identità personale.
Il rispetto delle norme interne, specie se aderenti a standard contrattuali nazionali, assume rilievo ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione, poiché costituisce parte integrante del patto fiduciario tra datore e dipendente.
5. Il parametro costituzionale e la centralità della persona
Ciò che rende l’ordinanza n. 13748/2025 particolarmente significativa è il passaggio in cui la Cassazione collega la giusta causa alla violazione di principi costituzionali fondamentali.
Le molestie sessuali, infatti, ledono il diritto all’integrità personale e morale (art. 2 Cost.), al lavoro in condizioni dignitose (art. 35 Cost.), alla parità di trattamento (art. 3 Cost.) e alla libertà personale (art. 13 Cost.).
In tal senso, la Cassazione si colloca sulla linea evolutiva già tracciata da Cass. n. 7426/2018, che aveva affermato come “il disvalore sociale di una condotta deve essere valutato anche in funzione dei beni giuridici costituzionalmente tutelati che essa offende”, e da Cass. n. 12789/2022, la quale aveva evidenziato che la violazione dell’art. 2087 c.c. rappresenta una lesione contrattuale “grave, autonoma e fonte di responsabilità indipendente”.
6. Considerazioni finali: verso una funzione sociale del potere disciplinare
L’ordinanza in commento esprime un modello di giudizio orientato alla funzione sociale del rapporto di lavoro.
La Corte non si limita ad applicare il principio di proporzionalità in senso restrittivo, ma lo rilegge alla luce della tutela sostanziale della persona.
La sanzione espulsiva viene considerata non solo lecita, ma anche doverosa in casi di violazioni così gravi della dignità personale, in linea con l’obiettivo costituzionale di “effettiva uguaglianza” nei luoghi di lavoro.
In definitiva, la pronuncia conferma che non è tollerabile nei rapporti di lavoro alcuna forma di abuso interpersonale, anche quando perpetrata da soggetti privi di precedenti disciplinari o formalmente integrati nel contesto aziendale.
La giusta causa non si misura solo sulla rottura della fiducia contrattuale, ma sulla incompatibilità ontologica della condotta con l’ordinamento giuridico democratico.
Articolo scritto per "ISPER HR Review" - n° 254 del 18 Maggio 2025 - da Pasquale Dui e Luigi Antonio Beccaria
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