
Insubordinazione del lavoratore senza passaggio a “vie di fatto”
Fino a quale limite è consentita l’insubordinazione del lavoratore rispetto a colleghi e superiori?
Una nuova risposta è stata fornita dalla Suprema Corte di Cassazione, con la recente pronuncia n. 6398/2025, del 10 marzo 2025.
La cornice giuridico-sistematica è nota: il rapporto di lavoro si fonda infatti su un contratto (inquadrabile nelle seguenti categorie dogmatiche: sinallagmatico, per basarsi su una serie di prestazioni corrispettive che trovano l’una il proprio fondamento nell’altra; a effetti obbligatori, non essendovi alcun trasferimento di diritti sulle cose; a titolo oneroso; tendenzialmente commutativo, essendo le parti a conoscenza della gran parte della valorizzazione economica della prestazione che costituisce oggetto del contratto), avente quale elemento qualificante quello fiduciario, al punto che è la stessa disciplina codicistica a sancire la legittimità del recesso quando si verifichino fatti che non consentano la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro.
Purtuttavia, l’ineludibile connotazione sociale del fenomeno – lavoro e la necessità di tutelare (anche e soprattutto) giuridicamente la parte debole del rapporto ha fatto sì che l’elemento fiduciario, in special modo dal punto di vista della “percezione” datoriale, acquisisse, nell’interpretazione data dai formanti giurisprudenziale (soprattutto) e dottrinale, un ruolo minoritario rispetto alla necessità di “riequilibrio” del sinallagma contrattuale, con la conseguenza che molti fatti che astrattamente potrebbero giustificare, almeno da un punto di vista soggettivo, la venuta meno dell’elemento fiduciario, e che in un contratto non sottostante alla disciplina del lavoro subordinato verosimilmente costituirebbero ipotesi pacifiche di giusta causa di recesso, in tale alveo vengono diversamente qualificati.
È però evidente che una linea di confine rispetto alle eventuali “intemperanze” del lavoratore nei confronti di colleghi o superiori debba essere tracciata sempre avendo come bussola il principio di proporzionalità che deve informare tutti i provvedimenti di c.d. “giustizia privata” (quali le sanzioni disciplinari, e financo il licenziamento, pacificamente sono); ed è su questa tematica che verte l’ordinanza di legittimità in commento.


La vicenda fattuale, posta alla base di tutto l’iter processuale sfociato nella pronuncia in esame, si può riepilogare come segue: un lavoratore, assunto (“ante” 7 marzo 2015, pertanto inserito nel regime, processuale più che sostanziale alla luce delle recenti sentenze della Corte Costituzionale, stabilito dalla legge c.d. “Fornero”) presso una società per azioni, si vedeva recapitare n. 2 contestazioni disciplinari, ove gli veniva addebitata, per l’appunto, la fattispecie (anche prevista dal CCNL osservato dalla società datrice) dell’insubordinazione, peraltro aggravata dalla recidiva, concretizzatasi in una serie di (successivamente accertate dai giudici di merito come pacificamente accadute) gravi offese e minacce verso i superiori.
Il lavoratore veniva cautelativamente sospeso; decorsi i rituali termini, la società datrice irrogava il provvedimento espulsivo.
A riprova della presenza di più “anime” nel formante giurisprudenziale, laddove il Tribunale di Massa, competente sia per la fase “sommaria” del rito “Fornero”, sia nella fase a cognizione piena, respingeva il ricorso con cui il lavoratore impugnava il licenziamento; successivamente, però, la Corte Territoriale annullava il recesso e condannava la società alla reintegrazione, pur essendosi evidentemente sgretolato ogni vincolo fiduciario (il che ci riporta alle riflessioni svolte supra relativamente al diverso apprezzamento dei giudici del lavoro in ordine all’elemento fiduciario rispetto a una questione vertente su un contratto connotato da omogeneità soggettiva delle parti).
La società decideva pertanto di fare ricorso al fine di far dirimere la questione dalla Corte di Cassazione.
Il ricorso, pur articolato in cinque motivi di diritto, ruotava essenzialmente intorno alla censura della ricostruzione operata dalla Corte d’Appello, la quale, nel motivare la sentenza di reintegrazione, aveva dato un’interpretazione letterale della norma contenuta nel CCNL secondo cui la insubordinazione costituisce causa di licenziamento solo se “seguita dalle vie di fatto” (e, parimenti, considerava irrilevante la difforme previsione contenuta nel codice disciplinare, per essere lo stesso insuscettibile di deroga in peius per il lavoratore).
Lamentava in particolare la società nel proprio ricorso avanti la S.C. come fosse stato ignorato il disposto dell’art. 1365 cod. civ., secondo cui “quando in un contratto si è espresso un caso al fine di spiegare un patto, non si presumono esclusi i casi non espressi ai quali, secondo ragione, può estendersi lo stesso patto”.
Tale ricostruzione è stata ritenuta valida dalla Cassazione, che ha accolto il ricorso (assorbendo le altre doglianze), osservando come l’insubordinazione costituisca la “inosservanza della scala gerarchica presente nell’organigramma aziendale, realizzata o mediante il rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori oppure mediante qualunque altro comportamento idoneo a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale” (Cass. n. 9635/2016).
Posta questa nozione, qualora tale inosservanza non si concretizzi soltanto nella mancata esecuzione o attuazione di un ordine o di una direttiva, ma si manifesti altresì con comportamenti ingiuriosi e minacciosi, si è in presenza di un quid pluris, che il giudice di merito è chiamato ad apprezzare, perché può far assurgere l'insubordinazione ad un grado di gravità tale da essere equiparabile a quello delle "vie di fatto" e quindi integrare la giusta causa, ex art. 2119 c.c., proprio alla luce di quel criterio di gravità esemplificato dalle parti sociali.
Articolo scritto per "ISPER HR Review" - n° 247 del 2 Aprile 2025 - da Pasquale Dui e Luigi Antonio Beccaria
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