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Amministrazione Personale

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Gestione Rapporto Lavoro

Adlabor

N° 258

15 luglio 2025

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Divieto di fumo e luoghi di lavoro: quale sanzione in caso di violazione da parte dei dipendenti?

Il divieto di fumo è previsto dall’art. 51 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 e dal D.P.C.M. 23 dicembre 2003 e si applica ai locali chiusi ad uso collettivo, compresi i luoghi di lavoro pubblici e privati, nonché a quelli aperti a utenti o al pubblico, come ad esempio strutture dove si eroga un pubblico servizio, esercizi commerciali e agli altri locali generalmente accessibili dalla clientela (negozi, studi professionali, istituti di credito, etc.).

In ogni caso, per quanto attiene i luoghi ove siano impiegati lavoratori subordinati (o a questi assimilabili) il divieto di fumo sussiste in primo luogo come conseguenza dell’obbligo di osservanza della normativa in tema di sicurezza e igiene sul lavoro ex D.lgs. n. 81/2008 che grava sul datore di lavoro.

Secondo la giurisprudenza infatti “nel caso in cui il dipendente si trovi, a causa della postazione di lavoro, nella situazione di una ripetuta esposizione al fumo passivo, dalla quale consegue una condizione di disagio - causa di possibili gravi danni alla salute nel lungo periodo - certamente si deve ritenere che essa abbia inciso negativamente sull’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti come quello al lavoro; pertanto deve ritenersi che il comportamento omissivo del datore, a fronte di un comportamento vietato da specifiche disposizioni di legge, sia certamente determinante per il danno non patrimoniale patito dal dipendente.
Dunque, detto datore di lavoro deve essere condannato al risarcimento
”.

Appare, quindi, evidente, come il datore di lavoro sia tenuto a rendere effettivamente vigente in azienda il divieto di fumo, affiggendo la relativa cartellonistica all’interno dei locali aziendali, e stigmatizzando e sanzionando eventuali condotte di quei lavoratori che violano tale obbligo.

Ma, sotto il profilo disciplinare, fino a dove può spingersi un datore di lavoro nei confronti di un dipendente che sia stato colto a fumare all’interno dei locali aziendali, violando la disciplina vigente?

La giurisprudenza sul punto risulta abbastanza ondivaga.

Secondo la Suprema Corte “È legittimo il licenziamento di un lavoratore per inosservanza del divieto di fumo quando, valutate tutte le circostanze oggettive e soggettive, la condotta contestata appaia irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario (nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto adeguata la sanzione del recesso per giusta causa, in quanto nell'ambiente di lavoro vi era un'alta potenzialità di rischio incendio, inoltre il dipendente, che aveva già subìto una sanzione conservativa per violazione del divieto di fumo, svolgeva il ruolo di caporeparto ed in tale veste aveva il compito di controllare che i lavoratori del reparto rispettassero le norme contrattuali compreso il divieto di fumo)” (Corte di Cassazione, Sent. 10 luglio 2015, n. 14481).

E più recentemente la giurisprudenza è giunta a valorizzare il divieto di fumo anche rispetto ad una, ovviamente non auspicabile, tolleranza datoriale.

In tema di licenziamento disciplinare per violazione del divieto di fumo in area air-side, la mera tolleranza datoriale di condotte illecite diffuse tra i dipendenti, in assenza di specifici elementi idonei a generare nel lavoratore l'incolpevole convinzione della liceità della condotta, non è idonea a escludere l'antigiuridicità dell'infrazione.
Pertanto, qualora sia pacifica la consapevolezza del divieto da parte del lavoratore e non emerga un errore inevitabile determinato da comportamenti del datore tali da escludere ogni dubbio sulla legittimità dell'agire, il comportamento del dipendente resta disciplinarmente rilevante, a prescindere dall'omessa repressione di analoghi comportamenti da parte dell'azienda
” (Corte di Cassazione, Ordinanza 24 marzo 2025, n. 7826).

Contrariamente a tale impostazione ermeneutica, laddove la contestazione disciplinare al lavoratore fumatore faccia espresso riferimento a norme della contrattazione collettiva che in vario modo sanzionano l'inosservanza del divieto di fumare, la Suprema Corte ha sempre sottolineato la necessità che il giudice valuti e “pesi” le circostanze concrete che hanno caratterizzato il comportamento del lavoratore incolpato, verificando che vi sia stato rischio di incendio o comunque esposizione a pericolo di persone e cose.

In particolare “Non integra giusta causa di recesso la condotta della lavoratrice che venga sorpresa a fumare nel luogo di lavoro quando il CCNL (nella specie art. 54, comma 2, lett. c) del CCNL Gomma e Plastica) richieda ulteriori elementi quali la grave colpa dell'infrazione e il rischio "di provocare incidenti alle persone, agli impianti, ai materiali".

Il giudice di merito è tenuto a verificare l'esistenza di un pericolo in concreto, sulla base di una valutazione ex ante, e non in astratto ed ex post” (Corte di Cassazione, Ordinanza 14 aprile 2025, n. 9743).

I Giudici non hanno quindi considerato il fatto che il divieto di fumare sia, ex lege, inderogabile, e che la clausola contenuta nel contratto collettivo di lavoro richiedesse la sussistenza di un pregiudizio all’incolumità delle persone e alla sicurezza degli impianti anche solo potenziale, facendo prevalere una analisi in concreto, che rende molto più ardua la valutazione disciplinare da parte dell’azienda.

Per quanto attiene invece le sigarette elettroniche, il Ministero del Lavoro con risposta ad interpello n. 15 del 24 ottobre 2013, ha precisato che il divieto di fumo nei luoghi di lavoro non può essere applicato alle sigarette elettroniche, perché l’art. 51 della L. 3/2003 e la Direttiva europea 21/37 CE si riferiscono solo al fumo di prodotto a base di tabacco, sancendo comunque il principio per cui è lecito che le aziende possano prevedere policy che vietino negli ambienti di lavoro l’uso di sigarette elettroniche.

Ma anche quando si ha a che fare con le “più innocue” sigarette elettroniche occorre prestare attenzione agli arresti della giurisprudenza.

Basti analizzare l’Ordinanza n. 16965 del 27 giugno 2018, con la quale la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato l’illegittimità di un licenziamento intimato ad un lavoratore, che era stato trovato intento a fumare la sigaretta elettronica durante il turno di lavoro nel locale della mensa aziendale.

Al lavoratore era stato infatti contestato l’uso della sigaretta elettronica e lo stesso aveva precedenti disciplinari, che si riferivano all’uso del cellulare, ma non gli era mai stata contestata l’illegittima sospensione dell’attività lavorativa ed il CCNL prevedeva una sanzione conservativa per il lavoratore che contravveniva al divieto di fumo indicato in apposito cartello.

Secondo la Corte di Cassazione fumare durante l’orario di lavoro (sigarette elettroniche o meno) non è in sé incompatibile con il contestuale svolgimento della prestazione, per cui o si contesta al lavoratore la sospensione della prestazione o, contestando la violazione del divieto di fumo, la sanzione espulsiva risulta sproporzionata (ovviamente in quelle particolari circostanze fattuali e in base al CCNL specifico e alla policy aziendale).


Articolo scritto per "ISPER HR Review" - n° 258 Luglio 2025 - da Adlabor Studio Goffredo e Associati - Partner ISPER

Immagine di apertura: elaborazione su Immagine generata con ChatGPT
Frecce: elaborazione su foto di Veronica Bosley da Pixabay