Licenziamento ritorsivo: inquadramento della fattispecie giuridica, conseguenze e oneri probatori
Inquadramento della fattispecie
La fattispecie in esame descrive un’ipotesi di recesso esercitato dal datore di lavoro (id est: licenziamento), il quale, al di là della ragione formalmente addotta (e dunque a prescindere dal fatto che il datore di lavoro recedente adduca ad una giusta causa ovvero ad un giustificato motivo di licenziamento), nasconde, più o meno larvatamente, una forma di rappresaglia da parte del datore di lavoro medesimo, il quale “maschera” la propria volontà, dovuta a frizioni personali, di espellere il lavoratore dall’organizzazione aziendale trincerandosi dietro un motivo tipizzato dalla legge, diverso da quello reale.
Preliminarmente occorre osservare come costituisca dato acquisito nel nostro ordinamento (a livello generale - civilistico) il principio di irrilevanza dei motivi, sancito all’art. 1345 cod. civ. (il quale dà rilievo al motivo, ossia la ragione soggettiva che fa astringere le parti alla costituzione, modifica o estinzione di un rapporto contrattuale ex art. 1321 cod. civ., solo se illecito, esclusivo e comune ad entrambe le parti, con conseguente nullità ai sensi e per gli effetti dell’art. 1418 cod. civ.), non trova applicazione nel rapporto di lavoro, in cui invece le ragioni poste alla base del recesso (ossia dall’estinzione del contratto) devono essere puntualmente esposte; nel caso del licenziamento ritorsivo si ha, dunque, un motivo reale che differisce da quello formale addotto dalla parte (non è infatti infrequente imbattersi in licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, dunque in sé totalmente estranei ai meriti e demeriti della persona del lavoratore, le cui impugnazioni contengano proprio la richiesta di dichiarazione di nullità del licenziamento medesimo proprio per la natura asseritamente ritorsiva del medesimo, che sarà onere del lavoratore provare secondo le regole che verranno infra meglio dettagliate).
L’orientamento della Suprema Corte
Quanto alla comparazione e al rapporto che deve sussistere tra i motivi “ufficiali” posti a fondamento del recesso, e quelli “ufficiosi” e (asseritamente) ritorsivi, con recente sentenza del 03/08/2023 la Corte di Cassazione ha espresso la seguente, fondamentale massima di diritto: “per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento”: in questo senso si può affermare che l’art. 1345 cod. civ. sopra richiamato, di base derogato nel corpus normativo giuslavoristico, “rientra dalla finestra” trovando applicazione in tema di licenziamento ritorsivo.
Proprio per la sua natura insidiosa e in qualche modo “occulta”, il licenziamento ritorsivo, anche a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015, emanato nel più ampio quadro della serie di Decreti nota come “Jobs Act”, che ha significativamente ridotto l’alveo della tutela reintegratoria per i lavoratori assunti successivamente alla data del 7 marzo 2015, detta fattispecie di recesso, ove accertata giudizialmente, rientra nell’alveo del licenziamento nullo, e pertanto presidiato da tutela reale, esattamente come se fosse irrogato in forma orale o durante i periodi tutelati di fruizione di congedi per maternità e paternità.
Prima di procedere ad una rassegna giurisprudenziale che possa fungere da “bussola” rispetto agli orientamenti ermeneutici relativi a tale istituto, non appare peregrino sottolineare come la tutela rispetto al licenziamento ritorsivo (sia in quanto stabilita dalla legge, sia in quanto applicata dal formante giurisprudenziale) verrà indirettamente potenziata per effetto dell’introduzione della normativa di fonte sovranazionale in tema di whistleblowing, teleologicamente indirizzata ad approntare una serie di tutele aggiuntive (anche, ma non esclusivamente, dal punto di vista squisitamente giuslavoristico) ai lavoratori che dovessero fare segnalazioni relative ad eventuali attività irregolari commesse dalle società: di talché il lavoratore che intendesse rivendicare la natura ‘vendicativa’ del licenziamento subito (si ribadisce, al di là del tenore letterale formalmente addotto nella lettera di licenziamento e della possibile pretestuosità dell’eventuale precedente contestazione disciplinare, in caso di licenziamento per giusta causa) potrà altresì fare ricorso a tale nuova architettura legislativa, pensata quale strumento rimediale sia preventivo sia successivo rispetto alla verificazione di fenomeni di simil fatta.
L’orientamento della giurisprudenza di merito
La giurisprudenza sul punto appare limpidamente coerente sull’aspetto definitorio della fattispecie: per capacità di sintesi, si veda la recente sentenza del Trib. Velletri, n. 143/2023, secondo cui: “Si configura licenziamento ritorsivo quando il recesso viene intimato dal datore di lavoro come ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore: si tratta, cioè, di un licenziamento per "ingiustificata vendetta". Tale licenziamento è nullo ex artt. 1418 e 1345 c.c. in quanto la ritorsione è motivo illecito determinante e quindi nullo”.
La ragione alla base della ritorsione può essere delle più varie: dall’esercizio del diritto di critica (ma non del suo abuso, che renderebbe, secondo i prevalenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, il susseguente licenziamento legittimo), alla minaccia o attuazione di azioni giudiziarie verso il datore di lavoro, sino alla commissione di comportamenti certamente sgraditi alla società, ma inidonei a configurare giusta causa o giustificato motivo di licenziamento (ad esempio, frequenti assenze per malattia collocate in maniera strategica, ma quantitativamente insufficienti a superare il periodo di conservazione del posto di lavoro, e comunque giustificate dalla presenza di un certificato medico).
Procedendo ad una rassegna giurisprudenziale funzionale a meglio circoscrivere il perimetro della fattispecie in esame, occorre sottolineare come la semplice illegittimità, o addirittura l’insussistenza dei motivi posti alla base del licenziamento non sono di per sé idonei a configurare un licenziamento ritorsivo (esattamente come non lo sono al fine di identificare la diversa e altrettanto grave fattispecie del licenziamento c.d. “ingiurioso”), occorrendo infatti un quid pluris consistente nell’animus del datore di lavoro di voler assumere un provvedimento con l’esplicito vincolo teleologico della rappresaglia: sul punto si veda la sentenza di Trib. Modena, n. 50/2023, massimata come segue: “Anche qualora venga accertata, nel corso della fase sommaria, l'insussistenza dei fatti posti a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, da ciò non deriva di per sé il carattere ritorsivo del licenziamento del lavoratore, occorrendo all'uopo un 'quid pluris', ovvero l'allegazione e dimostrazione di circostanze tali da consentire, quantomeno in via presuntiva, la necessaria correlazione del licenziamento alla condizione soggettiva del prestatore.”
Evidentemente, l’onere della prova rispetto alla sussistenza di questo quid pluris grava sul lavoratore (così Trib. Prato, n. 151/2021, che ha affermato: “In materia di lavoro subordinato, in tema di licenziamento nullo, il lavoratore deve indicare e provare i profili specifici da cui desumere l'intento ritorsivo quale motivo unico e determinante del recesso, atteso che in tal caso la doglianza ha per oggetto il fatto impeditivo del diritto del datore di lavoro di avvalersi di una giusta causa, o di un giustificato motivo, pur formalmente apparenti.”, il quale dunque dovrà, anche sulla base di comportamenti pregressi del datore di lavoro, dimostrare lo status soggettivo di malafede da parte della società; detta prova può non sempre essere agevole, ma può essere altresì ricostruita dal Giudice: sul punto si veda la già citata sentenza del Tribunale di Velletri in funzione di giudice del lavoro, secondo cui “spetta al lavoratore dimostrare, anche con presunzioni semplici, il carattere ritorsivo del licenziamento, ben potendo tuttavia il giudice valutare anche il complesso degli elementi già acquisiti in giudizio - da soli o in correlazione con altri elementi - e ritenere raggiunta la prova del carattere ritorsivo del recesso”.
L’apertura a tale maggior potere valutativo del giudice rende naturalmente più delicata la fattispecie, che altrimenti avrebbe rischiato di impingere in un regime di probatio diabolica.
Articolo scritto per "ISPER HR Review" - n° 187 del 29 Novembre 2023 - da Pasquale Dui e Luigi Antonio Beccaria
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