Area
Diritto del Lavoro

Topic
Giurisprudenza

Maurizio de la Forest de Divonne

N° 32

30 settembre 2020

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Covid-19 e contagio del dipendente in occasione del lavoro: quali responsabilità per il datore di lavoro?

L’ordinanza della Corte di Cassazione del 1 giugno 2020, n. 10404, ha statuito il seguente principio di diritto: “il riconoscimento della malattia professionale non comporta automaticamente anche il riconoscimento di responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., poiché incombe sul lavoratore che lamenti di avere contratto quella malattia, l’onere di provare il fatto che costituisce l’inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno”.

L’ordinanza in commento si rivela particolarmente attuale in quanto offre un importante spunto interpretativo per valutare i possibili profili di responsabilità del datore di lavoro, nel caso in cui un proprio dipendente abbia contratto il Covid-19 sul posto di lavoro, sebbene i fatti da cui trae spunto siano evidentemente slegati dall’emergenza epidemiologica.

La fattispecie sottoposta al vaglio della Suprema Corte aveva ad oggetto una richiesta di risarcimento del danno biologico avanzata nei confronti del proprio datore di lavoro da un dipendente, il quale riteneva che la lesione subita fosse stata cagionata dall’inadempimento datoriale dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 cod. civ.

La Suprema Corte ha ritenuto infondata la pretesa azionata dal lavoratore, ponendosi nel solco di un consolidato orientamento di legittimità, secondo il quale il riconoscimento della malattia professionale non comporta necessariamente anche il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. Nel caso di specie, infatti, il lavoratore non aveva assolto all’onere di provare il fatto costitutivo dell’inadempimento, il danno, nonché il nesso di causa; tutto questo, benché permanga l’onere del datore di lavoro di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

In termini generali, il datore di lavoro, nell’esercizio dell’attività di impresa, deve invero attenersi al rispetto delle regole cautelari codificate da espresse previsioni normative, ovvero, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, al rispetto delle norme di sicurezza “non scritte”, necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro.

Ciononostante, il datore di lavoro non potrà essere chiamato a rispondere in ogni caso dell’infortunio occorso a un proprio dipendente, ove egli abbia improntato la propria condotta al rispetto delle regole cautelari idonee a tutelare l’integrità psicofisica del prestatore di lavoro.

Infatti, negli ambienti di lavoro, non è mai possibile garantire il c.d. “rischio zero”. Diversamente opinando, ove si imponesse al datore di lavoro di fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente imprevedibili e non governabili, verrebbe scoraggiato l’esercizio dell’attività di impresa (si veda Cassazione civile, 27 febbraio 2017, n. 4970).

Fatte queste premesse, è d’obbligo chiedersi se i principi in questione possano trovare applicazione anche rispetto al fenomeno, del tutto nuovo, del dipendente che contragga il Coronavirus sul luogo di lavoro.

Il c.d. “Decreto Cura Italia” (art. 42 del D.L. n. 18/2020, convertito in L. 24 aprile 2020, n. 27) ha previsto che l’infezione da Covid-19, contratta in ambito lavorativo, può essere riconosciuta come infortunio sul lavoro e, quindi, tutelata dall’Inail.

Invero, le patologie infettive, contratte in occasione del lavoro, sono da sempre considerate come infortunio, poiché la causa virulenta è equiparata a quella violenta, anche ove i suoi effetti si manifestino a distanza di tempo e sia, quindi, difficile stabilire il momento contagiante.

Se, dunque, l’infezione da Covid-19, contratta in occasione di lavoro, è considerata infortunio sul lavoro, non si ravvisano ragioni per non applicare anche a tale ipotesi i principi della sentenza in commento.

Pertanto, anche per il dipendente che contragga il Coronavirus sul luogo di lavoro, non potrà automaticamente predicarsi la responsabilità del datore di lavoro, laddove in ambito aziendale siano state rispettate tutte le norme dettate dai protocolli di sicurezza e dalle linee guida governative o regionali, ovvero quelle suggerite dall’esperienza e dalla tecnica più aggiornata.

A riprova di ciò l’Inail (circolare del 20 maggio 2020, n. 22) ha ripreso e fatto propri i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, negando ogni tipo di equiparazione tra il riconoscimento dell’origine professionale del contagio e la responsabilità del datore di lavoro per il verificarsi di tale evento.

In particolare, l’Inail conferma che “il riconoscimento del diritto alle prestazioni da parte dell’istituto non può assumere rilievo per sostenere l’accusa in sede penale… Così come neanche in sede civile l’ammissione della tutela assicurativa di un evento di contagio potrebbe rilevare ai fini del riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, tenuto conto che è sempre necessario l’accertamento delle colpa di quest’ultimo nella determinazione dell’evento”.

Di conseguenza, anche l’esercizio dell’azione di regresso da parte dell’Inail non potrà fondarsi sul mero riconoscimento della causa professionale dell’infezione da Covid-19, ma richiederà l’accertamento di una condotta colposa da parte del datore di lavoro (sul punto, si veda anche Corte di Cassazione, sentenza 19 giugno 2020, n. 12041).

Il datore di lavoro dovrà, pertanto, formare ed informare i dipendenti i merito ai rischi legati al diffondersi del Covid-19, prescrivendo loro di adottare tutte le misure di prevenzione, come l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e il rispetto delle norme igienico-sanitarie, sulla cui osservanza dovrà essere svolta un’attività di vigilanza.

In tale logica si pone la norma recentemente inserita dalla legge di conversione nel c.d. “Decreto Liquidità” (art. 29 bis D.L. n. 23 dell’8 aprile 2020, convertito in Legge n. 40 del 5 giugno 2020), che prevede che “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro ... adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali...”.

Pertanto, qualora il datore di lavoro riesca a provare di aver adottato tutti gli accorgimenti necessari, quand’anche dovesse verificarsi una situazione di rischio lavorativo, generata dal diffondersi del Covid-19, è ragionevole (e anche auspicabile!) ritenere che trovino applicazione i principi richiamati, con la conseguenza che non dovrebbe essere tenuto a rispondere dell’infortunio.

Rimane, pur sempre, l’onere in capo al datore di lavoro di dimostrare di aver adottato tutte le misure necessarie ad evitare il contagio; prova questa che, a mio parere, a seconda delle circostanze, può risultare tutt’altro che semplice da fornire.

Sicuramente, la dimostrazione del rigoroso rispetto delle misure previste dal protocollo condiviso tra Governo e parti sociali costituisce per il datore di lavoro un importante punto di partenza.

Commento a cura dell'Avv. Maurizio de la Forest de Divonne

Tratto da "Sentenze e Commenti" - Settembre 2020 - Uno dei servizi dell'Abbonamento ISPER