Area
Diritto del Lavoro

Topic
Giurisprudenza

Antonio Pileggi

N° 27

15 luglio 2020

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Tutela giudiziale ed autotutela dei lavoratori dal rischio Covid-19: il caso dei rider

I rider corrono lungo i confini del diritto del lavoro. Sempre più al centro della scena giuslavorista.

Sono i destinatari di una normativa dedicata, diretta ad assicurare “livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi” (o motorini o motocicli e simili) “attraverso piattaforme digitali” (art. 1, D.L. n. 101 del 2019 convertito in L. n. 128 del 2019 che ha inserito il Capo V-bis nel D.lgs. n. 81 del 2015).

E sono i protagonisti di una delle sentenze della Suprema Corte più commentate nella storia del diritto del lavoro (Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663), che li ha qualificati, nel caso, come collaboratori coordinati dal committente cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati.

E sono anche i protagonisti delle ordinanze d’urgenza qui in commento che proprio alla sentenza della Suprema Corte si richiamano.

Escluse le forze dell’ordine in assetto antiassembramento ed anti-runners, nei mesi del lockdown i rider sono stati tra i pochi lavoratori ad essere stati lasciati “liberi” di scorrazzare in “velocipede” per le strade delle città desertificate dal lockdown senza timore di essere commiserati, se non linciati, da una folla inferocita di fedeli osservanti delle misure governative o senza doversi acquattare nell’erba incolta di un prato al primo bagliore di un lampeggiante.

Gli unici lavoratori per i quali si è posto giudizialmente il problema dell’adempimento dell’obbligo di sicurezza a fronte dell’inedito rischio di contagio da Covid-19 in occasione di lavoro, qualificato, com’è noto, come infortunio sul lavoro (art. 42, comma 2, D.L n. 18 del 2020 convertito in L. n. 27 del 2020), anche se l’INAIL, con una seconda circolare del 22 maggio 2020 (dopo una prima ritenuta non rassicurante dalle imprese), s’è affrettata a precisare che “la responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche, che nel caso dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 si possono rinvenire nei protocolli e nelle linee guida governativi e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n. 33”.

Ma proprio perché l’infortunio non si verifichi, i lavoratori - oltre a rispettare tutte le regole anti-contagio di cui al protocollo tra le parti sociali del 24 aprile 2020 (recepito nel DPCM del 26 aprile), adattato al contesto aziendale, anche mediante aggiornamento del Documento di valutazione dei rischi, perché la responsabilità del contagio non ricada (anche) su di loro - ben potrebbero tutelarsi, come hanno fatto i rider protagonisti delle ordinanze in commento, i quali - premesso di prestare in modo continuativo attività di fattorino per la consegna di cibo a domicilio in favore di note piattaforme digitali con contratto formalmente qualificato come lavoro autonomo - hanno chiesto ai Tribunali di Bologna e Firenze di ordinare in via d’urgenza, inaudita altera parte o, in subordine, previa instaurazione del contraddittorio, alle Società di gestione delle suddette piattaforme di consegnare loro dispositivi di protezione individuale quali mascherine protettive, guanti monouso, gel disinfettanti e prodotti a base alcolica per la pulizia dello zaino, "in misura sufficiente a fare fronte ad un numero rilevante di consegne settimanali".

Ed i suddetti Tribunali con ordinanze del 1° aprile (Firenze) e del 14 aprile (Bologna), a distanza di tre o quattro giorni dal deposito del ricorso, senza instaurare il contraddittorio (non ci sarebbe stato tempo) hanno ordinato in via d’urgenza al gestore della piattaforma digitale, inaudita altera parte, la consegna dei suddetti dispositivi di protezione individuale.

Oltre alla assoluta peculiarità del caso, le ordinanze in commento si segnalano per aver richiamato in motivazione la sopra citata sentenza della Suprema Corte in tema di estensione della disciplina del lavoro subordinato ai collaboratori organizzati dal committente “in un’ottica sia di prevenzione sia «rimediale», quasi ritenessero, in via generale, che la figura più emblematica di precario della cosiddetta Gig Economy (il rider per l’appunto), rientri per definizione tra i collaboratori organizzati dal committente di cui all’art. 2, comma 1, D.lgs. n. 81 del 2015, per il fatto stesso di pedalare in quella accidentata zona grigia o di confine che li fa sbandare all’interno delle tutele del lavoro subordinato.

Ricordiamo infatti come la Suprema Corte abbia precisato nella citata sentenza n. 1663 che l’art. 2, comma 1, citato non è norma di fattispecie, ma di disciplina: una sorta di potente magnete, o carta moschicida o pianta carnivora, che attrae, invischia e risucchia nella disciplina del lavoro subordinato chi si trovi a muoversi nei dintorni della subordinazione.

E precisamente chi non organizzi autonomamente la propria prestazione (in tal caso rientrerebbe nel nuovo art. 409, n. 3 c.p.c. come modificato dall’art. D.lgs. n. 81 del 2017), ma se la faccia etero-organizzare dal committente, anche attraverso una piattaforma digitale.

Per la verità il richiamo in motivazione alla sentenza della Suprema Corte appare sovrabbondante e non strettamente necessario, perché sarebbe stato sufficiente il richiamo alle norme in materia di tutela del lavoro tramite piattaforme digitali, anche laddove non “risucchiate” nella subordinazione, ed in particolare all’art. 47-septies, comma 3, D.lgs. n. 81 del 2015 che obbliga il committente al rispetto del D.lgs. n. 81 del 2008, ivi compreso l’art. 71 (obblighi del datore di lavoro in materia di uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale).

Ma ricorrere al giudice non è l’unica forma di tutela dal rischio contagio, essendo possibile l’autotutela.

Considerato infatti che il contagio non attende nemmeno un provvedimento d’urgenza inaudita altera parte, nel caso oggetto delle ordinanza in commento, così come in casi analoghi, sarebbe stato giustificato (anche nelle more dell’ottemperanza all’eventuale ordine giudiziale) il rifiuto della prestazione lavorativa quale eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c. in caso di violazione dell’obbligo di sicurezza commisurato alla pandemia, e dunque delle “misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” di cui al “Protocollo condiviso di regolazione” aggiornato al 24 aprile 2020 recepito nel DPCM del 26 aprile, quale declinato all’interno delle singole realtà aziendali.

Eccezione di inadempimento da esercitarsi, però, secondo buona fede, come la Suprema Corte ha precisato (soprattutto nei casi in cui più spesso s’è posto il problema: demansionamento, trasferimento) e, dunque, richiamando preventivamente il datore di lavoro al rispetto delle regole anti-contagio, e rendendosi immediatamente disponibile a rendere la prestazione lavorativa una volta osservate.

Ma del resto, è lo stesso protocollo del 24 aprile a prevedere che “La prosecuzione delle attività produttive può infatti avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione” e che “La mancata attuazione del Protocollo che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”, legittimando in qualche modo l’eccezione di inadempimento dei lavoratori al ricorrere delle suddette condizioni di rischio.

E, sia pure “pensando” ad eventi di altra natura (incendi, crolli ed altri eventi “traumatici” simili) la legge già prevede che “Il lavoratore che, in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, si allontana dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno” (art. 44, D.Lgs. n. 81 del 2008): ipotesi per un verso più ampia (non è richiesto l’inadempimento del datore di lavoro) e per altro più ristretta (deve sussistere un pericolo grave ed immediato) rispetto a quella di cui all’art. 1460 c.c.

Ma al di là delle disquisizioni giuridiche tutti ci auguriamo che ben presto articoli come questo diventino del tutto inattuali.

Commento a cura del Prof. Avv. Antonio Pileggi

Tratto da "Sentenze e Commenti" - Luglio 2020 - Uno dei servizi dell'Abbonamento ISPER