Pubblicazione di frasi diffamatorie sul profilo Facebook e illegittimità del licenziamento irrogato dall’azienda
Cass. 10 ottobre 2024, n. 26446: la vicenda giudiziaria e i fatti di causa
La vicenda in esame, recentemente scrutinata dalla Suprema Corte di Cassazione (n. 26446, pubblicata in data 10 ottobre 2024) e che ha giustamente suscitato dibattiti non solo nella comunità scientifica - giuslavoristica, ma nell’intero mondo “HR”, per via della grande attualità e della potenziale diffusione delle tematiche ad essa sottese, muove da un licenziamento disciplinare, irrogato nell’ormai lontano 2019, da parte di una società per azioni nei confronti di una lavoratrice, cui era stato contestato di aver pubblicato, sul proprio profilo Facebook, una serie di frasi diffamatorie ed offensive, sia nei confronti della società datrice di lavoro, sia nei confronti della persona dell’amministratore delegato della medesima.
Appare opportuno rilevare che, a seguito del licenziamento, la lavoratrice provvedeva all’impugnazione nei termini di legge; naufragata ogni possibilità conciliativa, la vicenda veniva devoluta al Tribunale di Firenze, competente quale giudice di prime cure, stante l’applicazione del c.d. “Rito Fornero”, sia per la fase sommaria, sia per la fase a cognizione completa; in entrambe le occasioni il ricorso della lavoratrice veniva rigettato, a riprova della complessità della materia e del bilanciamento tra contrapposti interessi (libertà di manifestazione del pensiero contro obbligo di fedeltà verso il datore di lavoro e anche eventualmente il principio generale del neminem laedere, ove i post offensivi avessero potuto configurarsi come integranti fattispecie di reato o comunque idonei a cagionare un danno reputazionale alla società e al suo amministratore delegato).
Purtuttavia, la vicenda proseguiva e veniva scrutinata, con riapertura dell’istruttoria, dalla Corte d’Appello di Firenze, la quale, sovvertendo quanto stabilito in primo grado, riteneva illegittimo il licenziamento disciplinare e, per l’effetto, condannava la società a reintegrare nel posto di lavoro la lavoratrice appellante, nonché a corrisponderle un’indennità pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nonché i pertinenti oneri, anche contributivi.
La Corte fiorentina provvedeva ad un riesame della quaestio facti che aveva condotto al licenziamento, che si fondava, sostanzialmente, su una serie (incontestata, nella sua effettiva ricorrenza fattuale) di esternazioni, per l’appunto avvenute sulla propria pagina social, relative alle condizioni di (in)salubrità della palazzina ove erano stabiliti sia degli impianti di potabilizzazione dell’acqua, facenti capo alla società datrice, nonché le postazioni di una sessantina di impiegati amministrativi; in detto contesto di luogo, pochi mesi prima della pubblicazione dei post incriminati, si era effettivamente verificata una fuoriuscita di sostanze tossiche che aveva coinvolto alcuni lavoratori ivi presenti, i quali anch’essi, sia pur in forme differenti, avevano comprensibilmente manifestato delle doglianze sull’accaduto.
Per questa ragione i giudici dell’Appello, nel riformare la sentenza di primo grado, avevano ritenuto operante l’esimente prevista dall’art. 599 del Codice Penale, che scrimina il comportamento di colui che commette il reato di cui all’art. 595 cod. pen. (diffamazione) in uno stato d’ira causato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso; da un punto di vista giuridico, ciò escludeva la commissione di un delitto, che, stando alle previsioni del contratto collettivo di categoria, avrebbe giustificato l’adozione del licenziamento per giusta causa; parimenti, la fattispecie concretamente verificatasi non poteva configurarsi come ‘insubordinazione’, nel senso di espresso diniego all’esecuzione di un ordine (lecito) del proprio datore di lavoro o di un soggetto gerarchicamente titolato a farlo; parimenti, venivano valutate, in modo globale e non meramente atomistico, altre circostanze quali l’anzianità di servizio della lavoratrice e la pregressa assenza di alcuna procedura disciplinare a suo carico, che facevano propendere i giudici del Collegio fiorentino per la sproporzione del provvedimento irrogato (e dunque per l’erroneità della sentenza di primo grado).
Il giudizio di Cassazione
A seguito di ricorso proposto da parte della società datrice avverso la sopra richiamata sentenza (App. Firenze, n. 110/2022), la vicenda veniva trasferita alla Corte di Cassazione; nello specifico, la società ricorrente articolava 5 motivi di ricorso, sollevando varie questioni rilevanti relative alle norme giuslavoristiche e alla loro interpretazione nel diritto c.d. ‘vivente’.
Un primo tema di notevole importanza riguardava la relazione tra la norma penale e la ricorrenza di un illecito civile, validamente contestabile in sede disciplinare; sul punto il ricorrente affermava che, quand’anche la condotta della lavoratrice, oggettivamente consistente nella pubblicazione di opinioni offensive verso il proprio datore di lavoro, potesse essere scriminata da un punto di vista penale, sarebbe comunque stata sufficientemente grave da lesionare il vincolo fiduciario che deve necessariamente intercorrere tra le parti del rapporto di lavoro.
La Cassazione, nel rigettare questo motivo di ricorso, forniva, peraltro in coerenza con dei propri orientamenti già espressi nel passato (cfr. Cass. 13425/2000; Cass. 20684/2009), una prospettazione opposta, secondo cui l’assenza di un giudizio penale tra le parti non impedisce al giudice di accertare la sussistenza (o meno, come poi accertato nel caso di specie) degli elementi costitutivi del reato; detto accertamento deve essere svolto dal giudice (civile, in questo caso in funzione di Giudice del Lavoro) “secondo la legge penale, e deve avere ad oggetto l’esistenza del reato in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi, ivi comprese le eventuali cause di giustificazione e l’eccesso colposo ad esse relativo”, con valutazione cosiddetta ‘incidenter tantum’ da effettuarsi in seno alla controversia vertente in sede civilistica.
Tale era stato, effettivamente, il procedimento logico - giuridico svolto dalla Corte d’Appello sollecitata in tal senso, il cui operato veniva pertanto confermato dalla Suprema Corte, la quale altresì condivideva nel merito il decisum del Collegio fiorentino in tema di non punibilità penale della condotta contestata, proprio per effetto del fatto ingiusto costituito dalla fuga di sostanze tossiche sul luogo di lavoro.
Ulteriormente, la società, in altro motivo di ricorso, come già accennato, riaffermava (circostanza sulla quale era stata già soccombente con doppia conforme nel processo di merito) la natura di insubordinazione della condotta tenuta dalla lavoratrice, riconducibile pertanto a licenziamento disciplinare per espressa previsione contenuta nella fonte collettiva: anche tale argomentazione veniva rigettata dalla S.C., atteso che la - peraltro già scriminata - condotta posta in essere dalla lavoratrice non riguardava l’applicazione di disposizioni aziendali, ma la “semplice” enunciazione di frasi oggettivamente gravi, di talché il riferimento all’insubordinazione (e il pedissequo motivo di ricorso) dovevano ritenersi impropriamente richiamati.
Residuava un altro tema, contenuto nel quarto motivo di ricorso, relativo alla critica mossa dal ricorrente alla sentenza di seconde cure, nella quale la Corte d’Appello aveva, in assenza di un’esplicita previsione nella fonte collettiva, autonomamente (e in modo improprio) effettuato una graduazione della intensità dell’infrazione, valutando così successivamente la (mancata) proporzionalità del provvedimento espulsivo assunto.
Anche tale percorso giuridico svolto dalla Corte “resisteva” allo scrutinio della Cassazione, la quale, anche in recenti pronunce del 2022, ha avuto modo di specificare come il giudice ben possa sussumere la condotta addebitata (ed eventualmente giudizialmente accertata) al lavoratore nella previsione contrattuale che stabilisce una sanzione conservativa, e senza che ciò comporti un’“invasione di campo” sul rispetto o meno del principio di proporzionalità.
Alla luce di tutti i ragionamenti svolti sopra, anche in ottica di un futuro in chiave nomofilattica della pronuncia, che tange un argomento, le critiche svolte sui social network da parte dei lavoratori ai datori di lavoro, certamente destinato a ricoprire un ruolo sempre più importante nel dibattito pubblico oltre che giuridico - specialistico, la Cassazione riteneva, smentendo il giudice di primo grado e confermando il dictum della Corte d’Appello, di rigettare il ricorso.
Articolo scritto per "ISPER HR Review" - n° 237 del 15 Gennaio 2025 - da Pasquale Dui e Luigi Antonio Beccaria
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