Area
Cultura delle Risorse Umane

Topic
Motivazione

Sara Loffredi

N° 263

4 novembre 2025

Visualizzazioni 19

Scrivere il lavoro: raccontare ruoli per creare valore

Un mestiere che non parla di sé

In alcuni settori dei servizi, il recruiting è diventato una sfida sempre più complessa.

Alcune figure professionali non riescono più a intercettare candidati motivati: il mercato non risponde, i canali tradizionali non bastano, le leve economiche non sono sufficienti a ribaltare la percezione negativa.

D’altronde, ogni professione porta con sé un immaginario.

Alcuni lavori evocano stabilità, prestigio, opportunità.

Altri, invece, si trascinano dietro etichette pesanti: monotonia, scarsa crescita.

Nel nostro caso, uno dei punti critici era proprio questo: la figura da reclutare non aveva un racconto positivo a sostenerla, essendo definita solo da una percezione di basso status e di scarsa prospettiva.

Il percorso che abbiamo realizzato con un gruppo di aziende di servizi può essere considerato a tutti gli effetti un case study.

La sfida era concreta: attrarre candidati verso una figura professionale percepita come poco interessante, sfruttando il cambiamento di paradigma dalla professione-status alla professione-strumento e ponendo l’attenzione sulla dimensione soggettiva e personale del lavoro.

In questo contesto, prima di cercare nuove strategie esterne, era necessario costruire una nuova visione interna del ruolo da valorizzare.

Attraverso strumenti narrativi, i manager sono stati guidati a:

  • riconoscere i bias interni che condizionavano la loro stessa visione del mestiere,
  • riformulare la descrizione del ruolo mettendone in luce significato e valore,
  • immaginare nuovi target di candidati, partendo da bisogni reali e motivazioni concrete.

La prima fase del lavoro è stata uno specchio: abbiamo chiesto ai manager coinvolti di scrivere. Non schede tecniche, non descrizioni operative, ma storie.

Raccontare la giornata tipo di quella figura, immaginarne i pensieri, le frustrazioni, persino il linguaggio.

Scrivere come se fossero loro a portare avanti quel mestiere.

È stato un momento rivelatore. La maggior parte dei testi era dominata da elementi negativi: stanchezza, rigidità, mancanza di riconoscimento.

In poche pagine era racchiuso il cuore del problema: se la nostra stessa visione del ruolo ha precise caratteristiche, come possiamo pensare che dall’esterno venga percepito diversamente?

Dal job title all’identità

Negli anni Ottanta il lavoro era un potente marcatore identitario.

La professione svolta ricopriva un ruolo chiave nell’autodefinizione dell’individuo: lungi dall’essere esclusivamente mezzo di sostentamento, diventava simbolo di status sociale.

Dichiarare di essere medico, avvocato o manager equivaleva a presentarsi al mondo con un’etichetta riconoscibile che condensava competenze e prestigio.

Oggi lo scenario si presenta totalmente diverso.

L’assioma che pone la professione come pilastro fondativo dell’identità, da costruirsi passo per passo, una volta diventati adulti, non è più vero.

Le trasformazioni culturali, economiche e generazionali hanno progressivamente indebolito questo modello e per molte persone, soprattutto delle nuove generazioni, il lavoro è semplicemente uno degli strumenti attraverso i quali è possibile sostenere e organizzare la propria vita.

Ciò non significa disinteresse verso la qualità o l’impegno, bensì un diverso posizionamento gerarchico: l’individuo viene prima del ruolo, l’identità non coincide con la mansione.

Questo cambio di paradigma genera effetti significativi anche sulla percezione dei cosiddetti lavori meno prestigiosi e può trasformarsi in una grandissima risorsa.

Se non è più necessario legare la propria autostima all’etichetta professionale, allora anche attività meno tradizionalmente valorizzate possono risultare attrattive, purché offrano condizioni coerenti con i bisogni personali.

Lavori organizzati su turni, che lasciano spazi di tempo libero, diventano interessanti non per il titolo che conferiscono ma per l’equilibrio che consentono.

Per i responsabili delle risorse umane, ciò implica una ridefinizione delle leve di attrattività.

La centralità non è più sul ruolo in sé, ma sull’ecosistema che quel ruolo disegna nella vita della persona.

Non è sufficiente quindi descrivere il contenuto della mansione; occorre illustrare come essa si inserisce in un quadro più ampio: quali possibilità di conciliazione con la vita privata offre, quale autonomia garantisce, quale prospettiva di crescita, anche trasversale, è in grado di mettere a disposizione.

La scrittura come metodo

Il workshop è stato costruito sulla scrittura come strumento di problem solving.

Scrivere obbliga a mettere ordine nei pensieri, a dare forma a intuizioni sfocate, a rendere espliciti i pregiudizi.

Una volta che le parole sono sulla carta, non si possono più ignorare: diventano materia di discussione e di trasformazione.

Le due giornate si sono sviluppate in più fasi.

I partecipanti, lavorando in piccoli gruppi, hanno innanzitutto prodotto testi che fotografavano il ruolo nel suo as-is.

Quali sono le persone che già lo ricoprono? Quanti anni hanno, da dove provengono, quali altri esperienze lavorative hanno vissuto, perché hanno scelto proprio questo lavoro a un certo punto della loro vita? Quali caratteristiche del lavoro ritengono positive per il loro modo di vivere? O, al contrario, quali criticità del mestiere soffrono in particolare?

Abbiamo messo in campo vari esercizi di identificazione narrativa, immaginando inizialmente di ricoprire il ruolo in prima persona e poi provando a raccontarlo dal di fuori, in terza persona.

Questo ha permesso di acquisire diversi punti di vista, facendo emergere in maniera autentica, nel confronto in plenaria, tutti i fattori di forza e di debolezza del ruolo.

Questi sono stati il punto di partenza di un lavoro che non li ha considerati in una prospettiva assoluta - come dati di fatto immutabili - ma relativa, perché tanto le criticità quanto il valore aggiunto di ogni esperienza sono vissuti in modo diverso da persone che hanno caratteristiche e bisogni differenti.

Andando oltre, nel lavoro di scrittura, abbiamo immaginato come fosse possibile rendere peggiori i punti critici del mestiere, cercando soluzioni che aggravassero quelle difficoltà: l’iperbole narrativa ci ha permesso di tornare alla realtà con una immagine molto più chiara delle criticità e delle possibilità di renderle meno impattanti.

Durante le letture collettive, sono emersi momenti di consapevolezza sugli aspetti positivi non immediatamente visibili del ruolo, come il contributo alla comunità e la possibilità di costruire relazioni durature.

L’obiettivo era arrivare a costruire personaggi realistici che incarnassero possibili candidati e che si sposassero con i punti di forza e di debolezza emersi.

Non numeri astratti, ma persone con età, background, paure, desideri, passato.

Alcuni cercavano stabilità dopo anni di lavori saltuari. Altre desideravano un orario definito per conciliare famiglia e lavoro.

C’era chi cercava un’opportunità che gli restituisse dignità e appartenenza a una comunità.

Ogni volta, in ogni narrazione, abbiamo provato a trasformare il ruolo poco attrattivo in una risposta credibile alle diverse esigenze.

L’identificazione dei target

Una volta trasformata la narrazione interna, è stato dunque possibile guardare al mercato del lavoro con uno sguardo nuovo.

I gruppi hanno identificato tre profili principali di candidati, con diverse necessità:

  • Il bisogno di sicurezza: persone con esperienza pregressa in lavori instabili, che cercano regolarità e possibilità di pianificazione;
  • La riconversione professionale: individui motivati a intraprendere un nuovo percorso lavorativo, a causa della crisi del settore di provenienza;
  • Il senso del lavoro: candidati più giovani, alla ricerca di un impiego capace di coniugare gestione del proprio tempo e impatto sociale.

Abbiamo lavorato profondamente su ognuno dei target - trasformandoli in personaggi con un arco narrativo - investigando le reali motivazioni che guidano ognuno di essi nella scelta di un lavoro. Successivamente abbiamo cercato di tradurre questa consapevolezza in pratiche concrete di employer branding, selezione, gestione e sviluppo.

La domanda cruciale non era più soltanto “come trovo un buon professionista per questo ruolo?”, ma piuttosto “come faccio in modo che questo ruolo abbia senso per la persona che lo ricopre?”.

In quest’ottica sono emerse dal confronto collettivo buone pratiche di valorizzazione del capitale umano, strumenti di flessibilità organizzativa, politiche di welfare, opportunità di sviluppo continuo e soprattutto un riconoscimento autentico della persona prima del ruolo che ricopre.

Le aziende hanno mostrato la capacità di costruire un’offerta di valore integrata che va oltre la retribuzione e diventa un fattore strategico nella competizione per i talenti.

Per ciascun target sono stati infine elaborati messaggi e strategìe di contatto.

Non slogan, ma iniziative autentiche: testimonianze dirette di colleghi, campagne social basate su storie reali, eventi di avvicinamento al lavoro.

La differenza è stata evidente: non si trattava di “abbellire” un mestiere, ma di raccontarlo attraverso una nuova narrazione.

Impatto e riflessioni finali

Dall’esperienza emergono tre insegnamenti utili a chi opera in ambito HR:

  • La comunicazione esterna risulta molto più efficace dopo un lavoro sulla narrazione interna del ruolo.
  • La scrittura è uno strumento utilissimo per far emergere bias e stereotipi, perché consente l’acquisizione di un diverso punto di vista.
  • L’approccio narrativo che trasforma i target in personaggi permette di identificare bisogni e motivazioni reali e costruire la corretta strategia comunicativa.

In un mercato del lavoro sempre più competitivo, attrarre talenti non significa solo offrire stipendi o prospettive di carriera: significa saper raccontare un ruolo in modo che entri in risonanza con i desideri e i valori delle persone.

Nella nuova collezione formativa ISPER “Scrivere l’impresa - Comunicazione e storytelling per la cultura organizzativa”, la scrittura si rivela infatti uno strumento strategico per rileggere il reale, costruire visione e liberare potenziale.

Lavorare con le parole è il primo, imprescindibile passo per arrivare al vero motore del cambiamento: le persone.

In quest’ottica, la narrazione diventa un potente strumento evolutivo che, nella collezione formativa ISPER “Raccontare l’azienda e le persone - La narrazione come strumento di reskilling revolution”, prende forma in percorsi capaci di allineare il potenziale individuale ai bisogni dell’organizzazione.

In conclusione, il risultato del case study è stato duplice: da un lato, la produzione di materiali narrativi (storie, profili di personaggi, headline d’impatto) immediatamente utilizzabili in comunicazione; dall’altro, la creazione di una nuova consapevolezza interna, condizione indispensabile per costruire campagne esterne autentiche e credibili.

Questo caso dimostra ancora una volta come la scrittura possa diventare uno strumento HR capace di trasformare un problema di attrattività in un’opportunità di cambiamento culturale e comunicativo. Ogni lavoro ha bisogno di essere raccontato, perché le persone non scelgono solo un mestiere, ma scelgono la storia che quel mestiere permette loro di raccontare di sé.


Tratto da "Personale e Lavoro" Rivista di cultura delle Risorse Umane - n° 681 - Ottobre 2025” - Uno dei servizi dell'Abbonamento ISPER

Immagine di apertura: elaborazione su Immagine generata con ChatGPT
Frecce: elaborazione su foto di Veronica Bosley da Pixabay