Il futuro di HR: riflessioni e provocazioni
“HR is not about HR”: era l’incipit del libro che David Ulrich scrisse nel 2017 a vent’anni dal suo esordio, che lo avrebbe fatto diventare un punto di riferimento per la comunità HR nel mondo.
È uno slogan efficace nel quale mi riconosco pienamente.
HR è stata una funzione deputata ad amministrare e servire quel mondo di “cose” che in qualche modo avevano a che fare con le persone, in modo più o meno sofisticato, più o meno qualificato, ma con una forte imprinting diremmo “verticale”, di pratiche e saperi che le organizzazioni usavano alla meglio o subivano alla peggio come un male necessario.
In realtà l’accelerazione di fenomeni esterni alla dinamica funzionale ha negli ultimi anni e decenni scosso profondamente questo impianto.
In particolare due sono i paradigmi che stanno progressivamente cambiando a mio avviso.
Da un lato, l’evoluzione dal modello “padre/padrone-figlio/lavoratore” a quello “leader/imprenditore-collaboratore/stakeholder” su larga scala ha implicazioni profonde sulla natura del contratto sociale e psicologico nell’organizzazione.
E determina nuovi confini e nuove modalità di funzionamento.
Questi ultimi anni di forte trasformazione e di inquietudine per il futuro hanno probabilmente cambiato il mix dei fattori determinanti sull’atteggiamento e la motivazione delle persone, in termini sia di quali siano i fattori sia del loro peso relativo.
Stanno crescendo di importanza gli spazi di lavoro ben disegnati, comodamente raggiungibili ma soprattutto flessibili, il tempo ben speso e speso in modo diverso a seconda della natura dell’attività, la capacità di prendersi cura anche della dimensione emotiva, la possibilità di costruirsi un scopo personale agganciato a quello aziendale, la presenza di (nuove) competenze e comportamenti manageriali che consentano ai manager di fare i leader, perché se le persone sono sempre meno risorse hanno sempre meno bisogno di “manager”, ma sempre più di leader.
Il solo legame formale di appartenenza (tipico delle grandi organizzazioni), così come il “soffocante” legame ascrittivo paternalistico non sono sufficienti, anzi rischiano di svuotare di significato un momento tanto dirompente nella vita di chiunque come il lavoro.
L’altro paradigma che sta rapidamente evolvendo è quello del lavoratore che da produttore diviene consumatore e che torna ad essere compiutamente persona.
Che cosa intendo?
All’apogeo dell’era industriale (e della cultura ad essa associata), chi lavorava veniva misurato e valorizzato per la sola capacità appunto di produrre, in modo più o meno diretto. Nel mondo-fabbrica, la legge della produttività e lo stigma dell’improduttività sono le due facce di una stessa medaglia.
Non che questo non sia rilevante, anzi.
Ma ha finito per prevalere come dogma l’esasperata ricerca di produttività, soprattutto individuale, con l’utilizzo spesso di strumenti di riconoscimento e incentivazione arcaici, sempre meno adeguati soprattutto alle professioni della “conoscenza”, che si sono affermate tumultuosamente negli ultimi decenni.
Mentre il paradigma del lavoratore-produttore porta con sé una focalizzazione a volte estrema sulla performance individuale, il paradigma del lavoratore-consumatore rischia di appiattire il rapporto sui bisogni espressi ed emersi.
Questo paradigma ha portato alla ribalta tecniche di gestione delle persone mutuate dal marketing tradizionale, fino a sottostimare che riportare genuinamente la persona tout court al centro dell’esperienza lavorativa significa aprire opportunità nuove e di grande potenzialità.
In qualche modo, sempre con molti caveat, è simile al percorso di evoluzione del marketing tradizionale.
La vera differenza rispetto alla dimensione del consumatore è che le persone al lavoro non scambiano questo valore con un prezzo attraverso la transazione di una carta di credito, ma lo scambiano dando una parte di se stessi, del loro tempo, della loro energia, delle loro capacità, dei loro sentimenti e anche dei loro valori.
Mi verrebbe da parafrasare il tutto con “un buon stipendio, e magari un buon insieme di benefits non sono sufficienti”.
Per questo la dimensione individuale e quella collettiva nell’organizzazione si incrociano come mai era stato in passato.
Come è chiaro a tutti, sulle persone nelle organizzazioni si gioca moltissimo, ben al di là della retorica.
I cambi di paradigma impongono nuovi approcci, urgentemente.
Pertanto, sia pure con il buon senso e la prudenza necessari, attingere in modo acritico al passato non è la strada maestra, ma è una base di riferimento imprescindibile.
I modelli tradizionali e consolidati hanno le loro radici in un contesto appunto “industriale” o al più “post-industriale”, caratterizzato dalla fiducia nel progresso lineare e nella disponibilità infinita di risorse.
Siamo stati bravi a perfezionare i nostri metodi di recruiting e selezione, quelli di formazione e sviluppo, l’allineamento delle persone verso i risultati attesi, il riconoscimento ed infine la creazione di ambienti di lavoro più motivanti e gradevoli.
Le tecnologie digitali ci stanno aiutando a rendere gli individui più produttivi, connessi e le organizzazioni più “agili” e flessibili.
Tuttavia le vere sfide sono destinate a venire da questioni più fondamentali, questa volta non solo interne all’organizzazione come tradizionalmente l’abbiamo concepita, progettata e gestita.
E occuparsi di persone al lavoro non sarà più solo per minimizzare gli errori o evitare gli sprechi di risorse - incluso quelle “umane”, ma per realizzarne pienamente un potenziale in un sistema sempre più aperto e interconnesso.
In questo senso il futuro di HR sta nella comprensione e interpretazione di alcune sfide, che sono a mio avviso:
la valorizzazione degli individui e la loro esperienza come persone al lavoro;
l’uso intelligente della tecnologia non solo per guadagnare in produttività, ma per liberare energie creative e superare il modello-macchina applicato alle persone;
la valorizzazione di una leadership “saggia” che non coincide più con l’ordinata “gestione delle risorse”, proprio perché le persone non sono risorse;
il disegno di organizzazioni
che non siano gabbie per limitare i limiti di perfezione attraverso l’esercizio di burocrazia e potere e valorizzino capacità individuali e collettive;
la valorizzazione della cultura
organizzativa come leva potente di identificazione, appartenenza e soprattutto compensazione della de-strutturazione necessaria se si vuole essere davvero “agili”.
Questo significa per me che HR non sia “about HR”.
Non perché il reclutamento e la selezione, la formazione e lo sviluppo, la gestione delle performance non siano più rilevanti o escano dall’area di influenza ed expertise di HR, ma perché la futura ragion d’essere di HR sarà nella capacità di guidare le persone nelle sfide e nel cambiamento.
Certamente, non tutto è nuovo sotto il sole.
Anzi, nel passato e nel presente ci sono i semi di questo futuro, anche se magari non sempre visibili, equamente distribuiti e nelle condizioni per fiorire.
Si tratta tuttavia di andare ancora oltre, di non pensare solo a marginali miglioramenti di “processo” e ottimizzare, magari in salsa digitale, l’infrastruttura esistente.
Basti pensare ai modelli operativi e organizzativi che vanno per la maggiore.
Penso a quello sviluppato proprio da Ulrich con tutte le varianti successive negli ultimi 20 anni e diventato quasi uno standard, almeno nelle organizzazioni di medio-grandi dimensioni: modello che ha peraltro il merito di aver segnato una prima importante ondata di evoluzione di HR dal suo passato grigio e polveroso verso un ruolo più vicino e sentito dal business (la nascita del ruolo del “business partner” ha avuto un grande impatto), con una focalizzazione di centri di eccellenza specialistica (i celebri CoE, centers of expertise) e con una segregazione di tutto ciò che era tradizionale in una logica di service delivery, proprio sul modello sempre più diffuso di altre funzioni, come quelle di accounting o IT.
Questo modello, se non opportunamente evoluto e interpretato, rischia però di tenere HR about HR.
Per almeno tre aspetti.
Il primo è che i veri problemi da affrontare sono sistemici e non possono essere affrontati da singoli domini.
In particolare, questo impatta l’organizzazione per centri di expertise e specialità.
Le vere sfide e opportunità sono complesse e richiedono per questo multidisciplinarità e integrazione.
Ad esempio, le strategie e pratiche di riconoscimento o di apprendimento non hanno forse implicazioni organizzative, culturali, di scienza della motivazione e richiedono anche forti competenze analitiche?
Il rischio di creare funzioni nella funzione, expertise importanti ma segregate nelle loro piccole (o grandi) torri d’avorio è alto.
Soltanto operando in modo integrato e multi-disciplinare i centri di eccellenza possono offrire soluzioni coerenti e solide.
Mi spingo a pensare i centri di eccellenza non più come vere e proprie strutture, ma come reti e piattaforme di competenze focalizzate sulle soluzioni da creare e implementare, peraltro in tempi sempre più stretti.
Inoltre, la figura del Business Partner non può essere solo quella di un Key-Account Manager interno, deve avere forti capacità strategiche, ma anche di coaching ed essere in grado di guidare il cambiamento sia a livello organizzativo che personale.
Perché questo ruolo non diventi un simulacro di modernità, ma un punto di accesso autentico, qualificato ed efficace al mondo vero delle persone e dell’organizzazione, capace di attivare e facilitare di volta in volta le soluzioni necessarie.
Infine, parlando di Service Delivery o di HR Operations, l’investimento in tecnologia e le logiche sempre più spinte di gestione dell’esperienza richiedono una profonda trasformazione, spostando il focus dalla gestione di processi e standard alla gestione attiva appunto dell’impatto sulle persone.
Come dire, l’ossessiva attenzione ai processi, ulteriormente enfatizzata dalla digitalizzazione, va rovesciata a favore di un approccio appunto di “esperienza”, mettendo o rimettendo al centro la persona in quel momento e contesto.
Insomma, mi auguro che - per convinzione e non per convenzione - le macchine di “service delivery” tradizionali vengano sostituite con strutture intelligenti che sappiano operare e dialogare secondo logiche totalmente nuove.
Le persone si attendono soluzioni, non lunghe attese una volta aperto un “ticket” e la percezione di autentica personalizzazione.
Se vogliamo, questi possono sembrare solo aggiustamenti, ma sono tutt’altro che banali.
Richiedono quella abilità organizzativa e coraggio di innovare a cui spesso gli stessi professionisti HR abdicano anche al loro interno: più semplice adottare un modello pre-confezionato mainstream e provato in passato e altrove.
Come vediamo spesso, i CEO o i direttori generali non chiedono ad HR di implementare questo o quel modello, chiedono di giocare un ruolo e portare un contributo.
Sta a noi - inteso singoli professionisti e comunità professionale - trovare le modalità operative e organizzative più coerenti allo scopo.
Mi si obietterà che spesso, soprattutto nelle organizzazioni multinazionali, gli spazi di manovra specie nelle organizzazioni locali, siano limitati dal prevalere di modelli globali che vanno adottati, spesso con scelte drastiche e top-down.
Questo è molto vero, e non possiamo fingere il contrario.
Resta la possibilità concreta di esercitare, specialmente a livello più senior, la giusta influenza e offrire l’opportunità di sperimentare soluzioni, qualora ci si creda.
Non tutto il mondo poi è fatto di organizzazioni multinazionali sopra le 10.000 persone o con fatturati multi-miliardari.
Spesso è possibile innovare e creare nuovi modelli, proprio in organizzazioni più piccole o comunque meno complesse e in fasi di sviluppo diverse.
Tuttavia, anche operando all’interno di schemi e modelli operativi apparentemente rigidi, gli spazi di manovra ci sono, se si interpreta il proprio ruolo diversamente e si abbandonano le certezze del passato (e spesso presente).
Purché naturalmente non si cada nella trappola di creare ulteriori rigidità, inventando ruoli che pomposamente si occupino di HR Innovation o addirittura Future of Work o altre diavolerie di moda.
Gli elementi che possono fare davvero realizzare un HR not about HR non sono tuttavia legati all’aderenza o efficace di questo o quel modello operativo, ma ad un salto di posizionamento e interpretazione del ruolo, una volta comprese le sfide - premessa indispensabile.
Ne lancio alcuni per provocazione e riflessione.
La prima “provocazione” riguarda l’adozione del principio di Pareto per cui l’80% degli effetti è spiegabile attraverso il 20% delle cause anche nel mondo del management delle “risorse umane”.
Al netto della sua efficacia nel guidare molte decisioni e generare efficienza nell’allocazione delle risorse, quante volte ci siamo fatti guidare da questo principio per definire politiche di investimento sulla formazione, o strategie di sviluppo delle persone o ancora politiche di remunerazione?
È molto semplice da raccontare, ma è davvero il modo più coerente di allocare investimenti o parlare di persone in un contesto dove saranno sempre meno risorse e sempre più persone?
È proprio vero che il 10% o 20% della popolazione aziendale influenzi l’80 o 90% della sua perfomance complessiva e pertanto l’attenzione vada solo lì?
È proprio vero che lo stesso valga per la formazione, dove il massimo investimento anche finanziario va su una piccola parte della popolazione, anche su temi come la leadership?
È proprio vero che in una logica di apprendimento continuo non si debba investire su tutti, ma proprio tutti, a maggior ragione in un contesto dove le attività più ripetitive e semplici spariranno perché automatizzate?
È proprio vero che la forza della cultura organizzativa risieda in una piccola parte della popolazione e non in intere comunità?
Penso che lo sforzo sia modulare gli interventi e gli investimenti, utilizzando una varietà di soluzioni, anche a basso costo, piuttosto che selezionare piccole popolazioni a cui riservare tutto o quasi.
La seconda “provocazione” riguarda il DNA dei professionisti HR e le aree di expertise da cui provengono e di cui si nutrono.
Anche senza arrivare ad immaginare il “labour anthropoligist”, come linea di evoluzione del ruolo di HR, non ho dubbi che dovremo stemperare le dimensioni “legalistica” e “mercatistica” del mestiere per recuperarne una più ampia e profonda, quella “antropologica”.
Non penso sia fantascienza e nemmeno l’ultima novità commerciale, credo ci sia invece uno spazio da studiare ed elaborare destinato ad arricchire la competenza e le pratiche della comunità HR.
In modo più esteso, HR deve riguadagnare profondità e competenza spendibile nei domini delle scienze della persona.
Più HR lascerà la sua caratterizzazione di custode di processo per acquisire quella di custode della coerenza cognitiva e culturale nell’organizzazione tra tutte le parti e le persone, più dovrà appropriarsi di nuovi strumenti ed expertise.
La terza "provocazione" riguarda il ruolo di HR nell’allenare l’intelligenza emotiva e sociale di managers e leaders.
Non più e non solo “supporto”, ma una consapevole e intenzionale capacità di impattare su questa componente chiave dell’organizzazione del futuro.
Non per tutti forse, ma certamente per tutti quelli che vorranno interpretare questa professione in modo coerente alle necessità.
La quarta e ultima "provocazione" riguarda il ruolo di HR nel mondo digitale.
Così come per qualsiasi altra disciplina la tecnologia digitale entra e abilita nuove competenze e nuove modalità operative, questo vale anche per HR.
Pertanto mi auguro di non vedere ancora a lungo posizioni di Digital HR perché temo sarebbe la dimostrazione che la tecnologia rappresenta qualcosa di estraneo.
Oltre a una maturità nei confronti della tecnologia (né il Sacro Graal né l’apocalisse), ad HR sarà sempre più richiesto di riprendere in mano le competenze organizzative e analizzare con attenzione i processi operativi e il loro funzionamento immaginando scenari radicalmente diversi a partire dalle potenzialità della tecnologia.
Il tutto, connettendo gli impatti e facilitando i cambiamenti con le persone al centro.
Questo è oggi delegato ai fornitori delle tecnologie e a consulenti che interpretano il mestiere in modo tradizionale e poco formati nell’analisi dei sistemi complessi.
È questa un’area di expertise ancora inesplorata ma dal grande potenziale.
In un tempo in cui ChatGPT (e simili) promette funamboliche rivoluzioni, consiglierei ai colleghi HR di agire un ruolo costruttivo ma critico, per non seguire pedissequamente il coro.
Mi auguro che queste provocazioni abbiano un potenziale, magari non sul brevissimo termine, e richiedano un grande sforzo congiunto della comunità professionale, del mondo accademico, del mondo imprenditoriale e del management per fare importanti progressi, costruendo su un’eredità importante e su un bisogno altrettanto grande.
Mi piace chiudere con una nota positiva, riprendendo la voce di un autorevole CEO a cui avevo posto la domanda che rappresenta una buona prova del nove: “Consiglieresti o sconsiglieresti a un giovane di occuparsi di HR in futuro e perchè?”.
Ebbene, questa è stata la sua risposta, che voglio considerare un riconoscimento per tutti coloro che si sono impegnati in tanti anni di lavoro ma soprattutto un messaggio di forte ottimismo: “Lo consiglierei assolutamente e se possibile ancora di più in futuro.
È possibile oggi entrare nel cuore delle attività di maggior valore aggiunto per HR (attraction, sviluppo, coaching) senza passare attraverso un percorso lungo e tedioso per le aree un tempo tradizionali.
Oggi è molto più bello anche perché questo ruolo viene riconosciuto, mentre solo vent’anni fa non lo era”.
Benché incoraggiante, questo non deve però suonare come rassicurante, ma come uno stimolo per investire continuamente in comprensione, adattamento e investimento di ruolo e competenze.
Tratto da "Personale e Lavoro Rivista di cultura delle Risorse Umane - n° 669 - Settembre 2024"
Uno dei servizi dell'Abbonamento ISPER
Immagine di apertura: elaborazione su Foto di WOKANDAPIX da Pixabay
Frecce: elaborazione su foto di Veronica Bosley da Pixabay