Area
Cultura delle Risorse Umane

Topic
Smart Working

Nicola Castelli, Marco Leonzio e Luca Quaratino

N° 134

14 settembre 2022

Visualizzazioni 601

Coltivare la saggezza sul lavoro per navigare in ambienti fragili e incerti
1ª parte

Non c’è dubbio che il maggiore catalizzatore del cambiamento di questi ultimi anni sia stata la pandemia che dal 2019 ha accelerato una serie di tendenze che interessano ambiti diversi della esperienza professionale di ciascuno di noi: la fisionomia delle organizzazioni, il significato e la sostenibilità del lavoro, il confine e la relazione tra lavoro e vita privata.

Lo smartworking ha abbattuto molti steccati, la great resignation ci mostra il più recente rimbombo di quella detonazione.

Che qualcosa di importante e irreversibile fosse in movimento lo abbiamo capito a partire dalla primavera del 2020, quando ormai troppe e troppo significative erano le esperienze di lavoro da remoto.

Ci domandavamo in quei mesi - anche noi nel vortice delle call e dei colleghi diventati una rettangolare presenza quotidiana - cosa stesse succedendo e cosa sarebbe rimasto quando la bufera fosse passata, fin quando il pensiero non cambiò direzione e dall’osservazione sul presente si spostò verso una direzione più propositiva.

Cominciammo a domandarci se in qualche modo - proprio in quel momento in cui molto sembrava possibile - potessimo cogliere l’occasione per capire come aiutare il lavoro a diventare una esperienza non solo smart, ma che un po' wise.

Le tendenze alle quali facciamo riferimento stanno infatti tratteggiando i contorni di una esperienza del lavoro potenzialmente più libera ed espressiva ma anche meno definita, più impegnativa da interpretare ed agire e potenzialmente invasiva.

Le organizzazioni, nel tentativo obbligato di rispecchiare all’interno la complessità dell’ambiente, evolvono verso configurazioni flessibili e decentrate, sempre più connotate da mosaici mobili di appartenenze a team e da attraversamenti orizzontali e temporanei.

Il lavoro, tallonato dall’incalzante automazione non solo delle attività operative ma anche di quelle cognitive, riserva alle persone un’esperienza sempre meno esecutiva e caratterizzata, al contrario, da attività più difficili da definire, regolare e valutare, legate alla qualità delle relazioni, all’individuazione di nuove soluzioni, all’adattamento continuo, alle decisioni complesse.

In questo universo professionale in continua ridefinizione la navigazione non è semplice.

Basterebbero i pochi elementi generali menzionati a spiegare come mai l’esperienza del lavoro possa diventare più coinvolgente e ricca di apprendimento da una parte, ma anche più difficile da comprendere e sostenere nel tempo, a partire dall’esigenza di porre qualche confine ai tempi e agli spazi, fisici e mentali.

Alcuni indicatori di questa situazione possono essere facilmente individuati nella presenza del wellbeing ai primi posti nei ranking mondiali delle ricerche sui temi prioritari di intervento o nella diffusione di iniziative tese in vario modo a tutelare la salute fisica e psicologica.

Per fare alcuni esempi: la piacevolezza dei luoghi di lavoro (e non solo la loro efficienza ed ergonomia, pur importanti), l’attenzione alla crescita personale (anche oltre ogni tema professionale), la qualità dell’alimentazione, il contatto con la natura, ecc.

Le aziende sono diventate improvvisamente più buone? Più ‘umane’?

Forse un po’, ma alla radice di tutto ciò vi è una ragione diversa: non possiamo sperare che le persone siano creative nelle loro attività, cordiali e disponibili nelle loro relazioni con colleghi e clienti, membri proattivi del loro gruppo o prendano buone decisioni se non «stanno bene», imprigionate tra procedure stringenti e rigide strutture gerarchiche.

Da questi pensieri nasce l’idea del lavoro saggio, capace di riconoscere e tenere in equilibrio istanze diverse.

Dopo lo smartworking - abbiamo pensato - non può che esserci il wiseworking.

Accostare due universi di significato così ampi e importanti nella cultura occidentale come lavoro e saggezza è sicuramente impresa temeraria, alla quale ci accingiamo con la dovuta cautela, confortati solo dalla fecondità del possibile risultato.

Forse la cosa più semplice è iniziare sfruttando un espediente abbastanza diffuso in ambito formativo/divulgativo (con una strizzatina d’occhio al marketing...): l’utilizzo dell’acronimo.

Un’organizzazione può essere definita a nostro parere WISE nella misura in cui la sua cultura e i comportamenti agiti da chi ne è parte rispettano e riflettono quattro principi di fondo:

  • Wellbeing: attenzione al ben-essere complessivo di tutte le persone che contribuiscono alla vita dell’organizzazione.

  • Interdependence: riconoscimento del vincolo di interdipendenza che lega indissolubilmente tutte le parti di cui il sistema organizzativo è composto, i suoi molteplici interlocutori e il contesto sociale e naturale in cui è immerso.

  • Sense & Sustainability: capacità di dare senso al lavoro quotidiano e renderlo sostenibile nel tempo per l’individuo, l’organizzazione e il territorio di riferimento.

  • Empathy: centralità delle relazioni cooperative, basate sul rispetto reciproco e l’integrazione delle differenti prospettive.

Fig. 1: La bussola dell’approccio WISE

Un sistema organizzativo può dirsi wise nella misura in cui viene riconosciuta l’importanza del ben-essere psicofisico, emotivo e relazionale di coloro che vi lavorano all’interno, ovvero non viene preteso (in modo più o meno esplicito) il sacrificio di ‘quote di salute’ individuali a fronte di un compenso economico.

Alla base di questo orientamento culturale e valoriale non va ricercato un buonismo utopistico, quanto piuttosto - come dicevamo - la consapevolezza che la qualità complessiva della vita lavorativa influenza significativamente la disponibilità delle persone ad investirvi risorse fisiche, emotive e psichiche, dalle quali dipendono poi, in ultima istanza, i risultati complessivi.

Proviamo ad avvicinarci al nocciolo della questione.

Cosa può essere questa ‘naturale’ spinta a prendersi cura? Perché lo facciamo?

Non è la nostra esperienza piena di esempi di persone che, appena si allenta il controllo, agiscono in modo opportunistico ed egoistico?

Perché dovremmo ‘prenderci cura’ del nostro lavoro e della nostra azienda?

Lo facciamo forse perché ci è utile: se l’azienda prospera, il nostro lavoro è salvo; questo è un argomento razionale ma non decisivo, perché trascura l’approccio di chi fa il minimo indispensabile e nulla più.

O forse lo facciamo perché sentiamo quell’azienda anche un po’ nostra e sviluppiamo quindi un senso di appartenenza che ci porta a includerla tra le cose a cui teniamo in una logica di reciprocità, intesa come disponibilità e propensione a contraccambiare con un comportamento analogo un gesto di attenzione, cura e rispetto nei propri confronti.

Se così fosse, si potrebbe dire che lavorare in un ambiente percepito come generativo e nutriente fa sorgere gratitudine nei confronti di chi contribuisce a progettarlo e realizzarlo, innescando circoli virtuosi che ‘producono’ coinvolgimento e impegno.

L’innata propensione dell’essere umano (per questioni di sopravvivenza) alla costruzione di legami cooperativi e al ‘prendersi cura’, ci porta anche verso una visione sistemica della realtà organizzativa, consapevoli della sostanziale interdipendenza che regge il funzionamento di un’organizzazione complessa: ogni ‘parte’ di cui è composto un sistema sociale - come l’ambiente della nostra esperienza professionale - influenza ed è influenzata da tutte le altre, continuamente ed inevitabilmente.

Più le azioni dei singoli attori vengono compiute tenendo in considerazione i loro effetti sull’insieme, meno è probabile che generino disordine e finiscano per risultare forzate o dannose.

È fondamentale che questo ‘senso d’interdipendenza’ si radichi nella cultura e nelle prassi gestionali quotidiane di un’azienda e ne orienti le scelte nei confronti degli stakeholder, inserendo in tale categoria anche gli ambienti naturali, fisici e sociali esterni ai suoi confini e con i quali essa interagisce. La naturale conseguenza di questo mindset è lo sviluppo di processi decisionali decentrati, che valorizzino l’intelligenza distribuita nel ‘sistema’.

(Segue nella seconda parte che sarà pubblicata sul numero 137 del 28 settembre 2022)


Tratto da "Personale e Lavoro n° 647 - Settembre 2022" - Uno dei servizi dell'Abbonamento ISPER

Foto di Jevgeni Fil da Pixabay
Frecce: elaborazione su foto di Veronica Bosley da Pixabay