Le sfide della ripartenza
"Il pericolo più grande nei momenti di turbolenza non è la turbolenza in sé,
ma è affrontarla con le logiche del passato".
Peter Drucker
A chiusura del secondo anno dell’era “coronavirus”, dobbiamo porci qualche domanda un po’ più articolata che potrebbe portarci a chiedere “Cosa possiamo dire di avere appreso da questo periodo” e “Come potremmo dare valore alle esperienze e novità che i due anni trascorsi ci hanno proposto”.
Gli ambiti sui quali lavorare sono numerosi e riguardano tutti noi sia come membri di organizzazioni, istituzioni e sistemi ma anche come singoli.
Limitandoci ad ambiti organizzativi e lavorativi abbiamo dovuto confrontarci con ritmi nuovi ma anche con la scoperta delle opportunità che la tecnologia ci offre sia in termini di razionalizzazione delle attività svolte, sia in relazione alle potenzialità relazionali che un adeguato sistema digitale offre.
Al tempo stesso abbiamo dovuto fare i conti con alcuni stravolgimenti del nostro “modus operandi” ancora una volta in termini di attività svolte e di modalità attraverso le quali ci relazioniamo in azienda e tra aziende.
È evidente che non si possa evitare di affrontare il “dopo” provando a fare tesoro di ciò che di positivo o meno questa dura esperienza ha messo in luce.
Alcuni termini e riferimenti un tempo relegati al mondo accademico o riportati nelle riviste di management come “Resilienza” o “Cigno Nero” sono diventati di uso comune andando oltre a ciò a cui facevano riferimento per trasformarsi in una sorta di “slogan” la cui portata onnicomprensiva ha finito per depotenziare il contributo che questi riferimenti di metodo o di approccio possono offrirci.
In realtà, però, una delle prime azioni che dovremmo provare a mettere in campo per “trarre insegnamento” dal periodo appena trascorso si può collegare proprio da un recupero del vero significato di concetti e di riflessioni che si associano al termine “Resilienza” e agli scritti di Nassim Taleb1.
In sostanza la capacità di “resistere ad un urto senza andare in frantumi” (resilienza appunto2) offre una prima opportunità di incamminarci su alcune considerazioni utili per valutare effetti e conseguenze da collegare al passaggio della Pandemia nelle nostre organizzazioni, ma anche di sottolineare come il cambiamento non debba prescindere dalla capacità di utilizzo efficace di ciò che “non si è frantumato”. Fuori dalla metafora la prima considerazione che dobbiamo affrontare non è legata tanto al fatto che i nostri modelli organizzativi, le nostre attività, i nostri processi abbiano saputo resistere e non si siano “frantumati”, ma deve portarci a valutare, da una parte se ciò che non si è rotto possa avere ancora un significato, un’utilità per le nostre organizzazioni e, dall’altra, quali elementi strutturali o riferimenti logici hanno permesso a nuovi processi di affermarsi e quali modalità organizzative hanno mantenuto la loro capacità di contribuire a generare valore aiutando ad affrontare adeguatamente la sfida pandemica. Procedendo sinteticamente per esempi possiamo sottolineare come in molte aziende la “scoperta” che il lavoro da remoto non aprisse la strada a inefficienze o peggio, va associata a serie riflessioni su quanto chi ha imparato a lavorare in smart fosse stato, sia riuscito o sia stato supportato nel riuscirci, a vivere e realizzare il proprio contributo in un sistema aziendale, un modello organizzativo e tecnologico motivante, efficace, funzionale e capace di supportare aspettative e capacità.
All’opposto è importante ricordare che molte aziende e un Ministro della repubblica impongono regole all’utilizzo del lavoro in remoto partendo dal diktat che ne esclude l’utilizzo il lunedì e il venerdì, il che porta ad evidenziare un’assoluta mancanza di attenzione e di volontà nel “processare” il cambiamento e organizzarne gli effetti reali e potenziali limitandosi, in un certo senso, a “subire” ciò che il cambiamento ha generato provando a limitarne, in modo miope, quelli che si ritengono i danni.
Analogo ragionamento potremmo farlo riflettendo sui meccanismi (esigenze) di coinvolgimento dei collaboratori che in molte imprese si sono concretizzate aprendo le porte alle riunioni in digitale.
Così abbiamo registrato la possibilità di “coinvolgere” attraverso un collegamento audio-video chi di solito, non solo per motivi legati alle distanze, non era solito trovarsi a partecipare a questi incontri.
Questa novità però si è associata all’esigenza di utilizzare queste modalità di condivisione per garantire l’efficace circolazione delle informazioni (che, non va dimenticato, spesso erano assicurate dai “corridoi” e dalle “soste davanti alle macchinette distributrici di caffè” ossia sostenute da meccanismi relazionali informali ma, a loro modo, efficaci) ha portato ad evidenziare sia le potenzialità derivanti dal coinvolgimento, sia la necessità di definire “metodi” adeguati per mettere a terra in modo efficace queste potenzialità.
Da questo punto di vista oggi le aziende si trovano di fronte ad alcune scelte importanti che devono permettere loro di non disperdere quanto scoperto non solo in conseguenza al ripristino di vecchie modalità organizzative e relazionali, ma anche sottovalutando le potenzialità generate dall’ascolto e dal coinvolgimento di risorse un tempo tenute lontane dalle stanze delle valutazioni/decisioni.
Riuscire a spezzare la logica gerarchica o a superare le filiere organizzative non solo potrà permettere di rendere concreti i vantaggi derivanti da organizzazioni appiattitesi (una sorta di “mito” che ritroviamo da decenni nei manuali di organizzazione del lavoro), ma potrà sostenere il necessario passaggio a modalità di lavoro capaci di realizzare un altro dei grandi “sogni” delle business school ossia il cosiddetto Bottom Up.
Così si potrà dare concretezza alla volontà di non limitarsi nell’indirizzo e nella gestione delle imprese alla delega verso i vertici delle stesse ma si potranno sostenere processi di natura strategica anche attraverso un maggiore coinvolgimento di altre figure aziendali rese concretamente capaci di “ascoltare” e “proporre” dai propri punti di osservazione l’andamento aziendale o commerciale.
Facendo riferimento a termini ampiamente evocativi utilizzati per descrivere leve di cambiamento il riuscire a “fare tesoro” delle esperienze di coinvolgimento di questi due anni potrà dare un senso a modelli e strumenti che già prima della pandemia venivano saltuariamente utilizzati nelle imprese più innovative.
Da questo punto di vista però l’adozione di principi “lean”, l’utilizzo di strumenti di coinvolgimento e responsabilizzazione legati agli “OKR”, piuttosto che sposare modelli gestionali “Agile” non potranno realizzarsi compiutamente se non attraverso la volontà di “aprire” le organizzazioni scardinando barriere sia orizzontali (tra funzioni/dipartimenti) sia verticali (gerarchiche).
Un altro passaggio necessario perché questo ripensamento possa trasformarsi in opportunità è quello di avviarlo riconoscendo l’importanza di ancorare il ri-partire ai principi e ai valori istituzionali che caratterizzano l’operare delle imprese.
La necessità di adattarsi e di “cambiare” richiede di essere sostenuta sempre da azioni coerenti con il sistema valoriale che alimenta il procedere delle aziende.
La consapevolezza di trovarci a vivere in uno snodo fondamentale per il futuro delle nostre imprese (e della società) deve spingerci anche a ripensare il sistema valoriale e ad investire, conseguentemente, per rafforzare o riorientare le culture aziendali.
Termini come coinvolgimento, sostenibilità o politiche orientate alla valorizzazione delle persone o al rafforzamento delle logiche di welfare, o semplicemente l’associazione tra contenitori come il PNRR e gli ESG, non rappresentano e non possono rappresentare solo richiami “illuministici” ad dover fare o al doversi organizzare, ma richiedono azioni, regole, adozioni di principi organizzativi e gestionali innovativi che, per affermarsi, richiederanno non solo investimenti di varia natura, ma la loro metabolizzazione sia genericamente nelle aziende, sia in chi vi opera indipendentemente dai ruoli ricoperti. Per tornare ai principi guida del management aziendale il richiamo alla coerenza tra “strategia e struttura” richiede necessariamente una capacità di comprendere come le strategie del post covid passino attraverso importanti ripensamenti in termini di “cultura dell’intraprendere” e, quindi, di “modelli manageriali” coerenti il che significa che non basteranno regolamenti più o meno condivisi per riorganizzare le nostre imprese affinchè gli effetti del cambiamento possano generare efficaci innovazioni nel “fare impresa”.
Proprio partendo da queste riflessioni possiamo recuperare il richiamo al “Cigno nero”, teorizzato da Nassim Nicholas Taleb, laddove definiva (nel 2007) la necessità di attrezzarci per affrontare un fenomeno “altamente improbabile” come driver logico sul quale orientare il futuro delle imprese.
La crisi che si trasforma in opportunità necessita un approccio concettuale aperto al nuovo anche imprevisto, anzi, in un certo senso la capacità di misurarsi con nuovi paradigmi rappresenta la premessa logica ma anche organizzativa e gestionale affinchè le imprese possano consolidarsi, mutare e nuotare in un contesto in rapido (spesso imprevedibile) cambiamento.
Da questo punto di vista però è anche possibile prendere spunto da una metafora (quella del cigno verde) che può affermarsi in risposta a quella del cigno nero.
Il Cigno Verde è ciò che John Elkington3, pioniere del movimento per la sostenibilità globale, ha proposto come simbolo della rinascita e risposta all’immagine teorizzata da Taleb.
L’idea di fondo dello studioso è che il mondo sia destinato ad una sorta di “inversione di marcia” che porterà a dare sostanza a “nuovi modelli in grado di dare ricchezza economica, sociale e ambientale per il mondo di domani”.
Citando quasi letteralmente quanto scrive nel suo testo egli sostiene che “La svolta sarà dirompente... con un mutamento radicale che muterà paradigmi, valori, mentalità, il quadro generale delle idee... avviando un processo esponenziale nelle forme di creazione di ricchezza e benessere nell’economia come nella società e nell’ambiente”.
Quindi una svolta necessaria, ineludibile, ma vista secondo una prospettiva non negativa (nera) ma legata alle capacità di “innovazione” e “adattamento” nonché alla “creatività” che ha da sempre accompagnato l’essere umano nella sua storia.
Entrando nel merito di quelle che vengono definite come esigenze indispensabili per dare enfasi al cambiamento, troviamo gli spunti utili per riconoscere nel sistema di valori (cultura) aziendale le leve fondamentali sulle quali agire per procedere su questo percorso.
Ne isoliamo solo alcuni macro e ne sviluppiamo, sebbene in sintesi, uno operativo. Sul fronte macro il primo e più evidente fronte sul quale le imprese saranno impegnate sarà quello legate alle pratiche di “corporate social responsability”.
Figura 1 La visione “Cigno Verde”
La necessità di operare confrontandosi con l’esigenza di ricercare un equilibrio tra le spinte di natura economica con quelle sociali rappresenta un indirizzo strategico e gestionale che si ripercuoterà sul fronte dell’innovazione di processi e di prodotti ma anche nella possibilità di dare vita a relazioni “trasversali” tra imprese (in termini di collaborazione tra simili ma anche tra diversi ossia non solo di natura verticale o orizzontale ma anche trasversale per aggiungere un elemento nuovo alla teoria collaborativa tra imprese).
Allo stesso modo l’attenzione ai portatori di interesse (interni ed esterni) permetterà di realizzare interazioni anche di tipo sistemico tra i vari soggetti che, a vario titolo, interagiscono con le imprese.
Analogamente l’attenzione e il rispetto delle esigenze di chi in azienda opera aiuterà a sviluppare strumenti di ascolto e di coinvolgimento portando a realizzazioni di modelli organizzativi ad alta intensità di coinvolgimento e partecipazione.
Un secondo tra i vari riferimenti macro è quello che afferma come “il nuovo capitalismo” debba assolutamente orientarsi con una visione di lungo periodo operando su alcuni filoni che richiederanno cambi di passo ma anche di modelli organizzativi e di responsabilizzazione.
Questo varrà (e molto spesso vale già ora) sia sul fronte delle azioni concrete legate allo spreco, ma anche ritornando a dare al profitto un ruolo strumentale alla capacità/vocazione di durare nel tempo delle imprese permettendo, nel contempo di affermare l’esigenza di consolidare il valore aziendale andando oltre i limiti del presente.
Un altro ambito capace di sostenere una visione di lungo periodo è quello che, attraverso investimenti orientati a snellire e semplificare i processi aziendali, asseconda la realizzazione di imprese flessibili e in grado di reagire, ad esempio, attraverso la riduzione delle strutture gerarchiche e l’adozione di modelli organizzativi piatti, piuttosto che dando spazio a modelli di gestione che portino alla capacità di realizzare sistemi collaborativi (formali o informali) secondo nuove logiche di networking consolidando relazioni di rete sviluppate in senso orizzontale e in senso verticale.
Un esempio4 offre la possibilità di evidenziare indirizzi organizzativi coerenti con quanto sottolineato precedentemente facendo riferimento alla già citata metodologia “Agile” le cui basi si fondano su una metodologia nata agli inizi di questo secolo nel mondo dello sviluppo software e sono legate al lavoro suddiviso in piccole squadre con una missione aziendale chiara e un ampio grado di autonomia (e una conseguente limitazione dei processi di tipo burocratico).
Alla base della metodologia “agile” c’è il rilascio frequente di miglioramenti su prodotti/servizi per verificare rapidamente la risposta del mercato e anticipare la capacità di comprensione degli effetti che l’azione determina sul mercato tenendo costantemente sotto controllo le modalità attraverso le quali si opera.
Il sistema “agile” si basa, quindi, più sugli individui e sulle interazioni tra gli stessi che sui processi e gli strumenti, sull’utilizzo di software funzionanti piuttosto che al seguire iter documentali iper strutturati e parcellizzati.
Agile significa enfatizzare la collaborazione piuttosto che la negoziazione, infine comporta un orientamento continuo all’ascolto e al cambiamento piuttosto che la redazione di piani dettagliati (magari difficili da modificare).
Traducendo schematicamente i punti forti del modello agile rapportati a quanto normalmente possiamo rilevare nelle nostre imprese possono essere rappresentati nella seguente tabella.
Il cambiamento di passo e di paradigmi che l’avvio di un modello “Agile” richiede, passa attraverso un importante investimento di tipo culturale proprio perché “cambiando i paradigmi” obbliga ad approcciare il lavoro (e la sua organizzazione) mettendo in forte discussione quanto si è andato consolidando nel passato (come in effetti siamo stati costretti a fare per molte delle nostre consuetudini da quando il virus ha invaso la nostra vita). Il ritoccare consolidati elementi di questa natura richiede sforzi importanti (anche in termini di tempi di reazione) facendo anche riferimento alla necessità di procedere attraverso approcci che tengano conto, e sappiano gestire, delle inevitabili azioni di “resistenza al cambiamento” che, naturalmente, questa situazione vedrà evidenziarsi.
Si tratta, quindi, di dare vita a modelli aziendali flessibili con strutture organizzative capaci di ridurre il ricorso a forme estreme di burocratizzazione e capaci di limitare le forme accentuate di gerarchizzazione, per arrivare all’adozione di meccanismi organizzativi che enfatizzino l’appartenenza e la condivisione valoriale (quello che a volte viene definito modello di clan).
Le imprese, quindi, si trovano davanti alla possibilità di cogliere le opportunità da “cigno verde” che il ri-partire rende esplicite ma per farlo, oltre ad accettare di mettere adeguatamente in discussione i loro modelli organizzativo-gestionali, dovranno investire adeguatamente affinché le spinte strategiche possano essere sostenute da sistemi valoriali in grado di porre al centro del proprio operare il coinvolgimento e la partecipazione attiva dei vari soggetti che operano all’interno dell’azienda.
Note
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Nassim Nicholas Taleb “Il Cigno nero: come l’improbabile governa la nostra vita” Il Saggiatore Milano 2008
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Il termine è interessante anche se associato al suo utilizzo in campo ecologico dove definisce “la velocità con la quale una comunità (o sistema ecologico) ritorna al suo stato iniziale, dopo essere stata sottoposta ad una perturbazione” Cit. Enciclopedia Treccani on line 16/10 2020
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John Elkington “Green Swans: the coming Boom in Regenerative Capitalism” Fast Company Press New York 2020
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L’esempio già citato in altro scritto rappresenta in modo molto chiaro il nesso diretto tra potenzialità derivanti dall’utilizzo non programmato di modelli organizzativi e potenzialità che possono derivare dalla capacità di riconoscerne le potenzialità
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William Ouchi “Theory Z” Avon Books New York 1980
Tratto da "Personale e Lavoro n° 639 - Dicembre 2021" - Uno dei servizi dell'Abbonamento ISPER
Foto di Arek Socha da Pixabay
Frecce: elaborazione su foto di Veronica Bosley da Pixabay