Area
Diritto del Lavoro

Topic
Giurisprudenza

Antonio Pileggi

N° 44

23 dicembre 2020

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Fallito tentativo di forzare il blocco dei licenziamenti da Covid-19

Il Tribunale di Mantova con sentenza dell’11 novembre 2020 ha dichiarato la nullità del licenziamento intimato il 9 giugno 2020, in pieno periodo di divieto di licenziamento da Covid-19, ad una lavoratrice con mansioni di aiuto commessa assunta con contratto di apprendistato professionalizzante, che, dopo essere stata posta in CIGS, era stata licenziata per chiusura della sede operativa e successiva cessazione dell’attività dell’azienda.

In realtà, come accertato dal giudice, l’attività aziendale non era cessata nemmeno nella sede operativa in cui operava la lavoratrice e comunque si svolgeva in più sedi.

Non sappiamo cosa sia passato nella testa dell’imprenditore che ha intimato il licenziamento perché è rimasto contumace.

Non sappiamo dunque se confidasse sin troppo ottimisticamente sull’avverbio espressamente, e cioè sul fatto che per la violazione del divieto di licenziamento pandemico (all’epoca dell’intimazione prorogato dal decreto legge 19 maggio 2020, n. 34) non fosse espressamente prevista la nullità e, dunque, non si trattasse di licenziamento “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” (art. 2, comma 1, D.lgs. n. 23 del 2015, che si differenzia sul punto dall’art. 18, comma 1, l. n. 300 del 1970 proprio per avere aggiunto l’avverbio in questione per qualificare “gli altri casi di nullità previsti dalla legge”).

Né, considerata l’epoca della intimazione del licenziamento (9 giugno 2020), quell’imprenditore poteva contare sulla previsione del cosiddetto “decreto agosto” che consentiva al datore di lavoro di revocare tutti i licenziamenti intimati nell’anno 2020 “in ogni tempo” purché “contestualmente” facesse richiesta del trattamento di cassa integrazione salariale per le causali legate all’emergenza pandemica “a partire dalla data in cui ha efficacia il licenziamento”, senza alcuna conseguenza negativa, posto che “in tal caso il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, senza oneri ne' sanzioni per il datore di lavoro” (art. 14, comma 4, decreto legge n. 34 del 2020 poi soppresso in sede di conversione).

Si trattava di un incentivo normativo a provarci furbescamente, nella logica propria del diritto del lavoro dei faccendieri in auge da un paio di decenni: le imprese avrebbero potuto intimare un licenziamento nell’anno 2020 salvo revocarlo “in ogni tempo” se il lavoratore lo avesse impugnato e prima che ne fosse accertata la nullità (dopo sarebbe stato troppo tardi, non essendo possibile revocare un licenziamento dichiarato nullo e dunque improduttivo di effetti).

Ma, lo ripetiamo, quella norma furbesca ancora non c’era, e poi è stata soppressa in sede di conversione non tanto per pudore, ma perché sarebbero fioccati licenziamenti pronti per essere revocati. E la colpa sarebbe stata data al governo.

Fatto sta che il Tribunale di Mantova, senza nemmeno pensarci, e (giustamente) senza nemmeno porsi il problema della rilevanza dell’avverbio “espressamente” (rilevanza nulla a nostro avviso) ha dichiarato nullo il licenziamento intimato in violazione del divieto condannando il datore di lavoro a reintegrare la lavoratrice ed a corrisponderle un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dal giorno del licenziamento fino a quello “dell’effettiva reintegra”.

È dunque fallito il primo tentativo di forzare il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, prorogato fino al 31 gennaio 2021 dal “decreto ristori” (art. 12 decreto legge n. 137 del 2020) e prossimo ad essere prorogato fino al 31 marzo 2021 dalla legge di bilancio.

Le imprese dovranno pertanto pazientare.

Dovrà attendersi il vaccino perché sia decongestionato il blocco dei licenziamenti?

Tratto da "Sentenze e Commenti" - Dicembre 2020 - Uno dei servizi dell'Abbonamento ISPER