Area
Cultura delle Risorse Umane

Topic
Stress

Andrea Castiello d’Antonio

N° 210

8 maggio 2024

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Psicoterapia per la salute del manager

La necessità di coltivare la propria salute, non solo fisica ma anche mentale, costituisce una consapevolezza che lentamente sembra essersi diffusa in numerosi strati e fasce della popolazione.

In questo contributo si vuole riflettere su un tema inusuale che potrebbe essere sintetizzato nella figura esemplare del manager-in-psicoterapia, cioè la positiva e costruttiva opportunità che potrebbe vivere una persona altamente impegnata nel lavoro in ruoli di responsabilità, all’interno delle organizzazioni e delle istituzioni, nel seguire un percorso di terapia psicologica.

La terapia della parola

Quando si parla di psicoterapia, cioè di qualcosa che scientificamente nasce con l’opera di Sigmund Freud sul finire dell’Ottocento, il primo professionista-scienziato a dare importanza al potere della parola, si potrebbe avere l’inclinazione a pensare con qualche scetticismo al fatto che non sia possibile migliorare il proprio stato e stile di vita soltanto parlando.

Soprattutto coloro che considerano come poco rilevanti le questioni psicologiche e tendono a interpretare qualunque situazione di vita sotto il profilo fisico-chimico e biologico, e quindi medico, risolvibile solo con farmaci (ed eventualmente psicofarmaci, nel nostro caso) possono nutrire diffidenza all’idea di rivolgersi a un professionista che propone di risolvere i problemi solo attraverso dei colloqui.

Ma proprio nel corso degli ultimi anni si sono aggiunte delle evidenze scientifiche importanti ai già numerosi indicatori che stavano lì a testimoniare il… potere della psico-terapia (Layard, Clark, 2022; Shedler, 2010), naturalmente di una buona psicologia clinica effettuata da professionisti esperti e eticamente attenti: si tratta degli studi sulla plasticità neuronale, in ambito neuroscienze.

Questi studi, condotti con le più moderne tecniche di indagine, hanno dimostrato che attraverso il dialogo psicoterapeutico si producono dei cambiamenti a livello cerebrale, nei collegamenti tra le cellule nervose - quindi modificazioni dei circuiti sinaptici tra neuroni.

Ciò consente, da un lato, di confermare una conoscenza di antica saggezza relativa ai legami strettissimi tra mente, psiche e corpo - qualcosa da non relegare soltanto nel novero dei disturbi psicosomatici, o somatoformi (Jores, 1956; Porcelli, 2022; Solano, 2001) - e, dall’altro, permette di offrire una base biologica, funzionale e morfologica, a ciò che poteva apparire soltanto confinato alla psiche.

La plasticità neuronale sottende numerosi meccanismi come, ad esempio, la rigenerazione delle cellule nervose cerebrali (la neurogenesi che, fino a qualche tempo fa, era considerata impossibile, dato che si pensava che i neuroni potessero solo diminuire dalla nascita in poi) e altrettanto ricco è il panorama dei metodi di indagine neurofisiologici tra cui, forse, il più noto è la Risonanza Magnetica Funzionale.

Per molti studiosi, ricercatori e soprattutto per i professionisti, cioè per gli psicoterapeuti che quotidianamente si confrontano con il disagio esistenziale e la sofferenza mentale, forse non vi era particolare necessità di attendere l’esito di questi studi neurofisiologici per aver fiducia nella terapia psicologica ma, comunque, i risultati di queste ricerche e sperimentazioni oggi offrono sicuramente un elemento di certezza in più a tutti: terapeuti e pazienti.

Si potrebbe dunque affermare che le psicoterapie funzionano - è necessario parlarne al plurale, vista la complessa articolazione del settore - e che possono concretamente essere di aiuto alle persone; si potrebbe aggiungere, per essere più precisi, che è il connubio tra un valido indirizzo terapeutico e un affidabile e competente professionista clinico che, sulla base di una relazione positiva con il paziente, permette di raggiungere risultati tendenzialmente stabili nel tempo che non potrebbero essere conseguiti in altro modo (ciò non toglie che in taluni casi sia preferibile affiancare alla psicoterapia l’intervento psicofarmacologico).

Leader, manager e professionisti

L’attuale configurazione di molte realtà di lavoro rende molto difficile la vita delle persone che sono ingaggiate in ruoli di elevata responsabilità di genere manageriale, professionale, specialistico e commerciale.

Manager e professional collocati in ruoli di responsabilità specialistica e organizzativa sono costantemente esposti alle pressioni decisamente indirizzate alla performance, alla cultura esasperata delle alte prestazioni, ma anche alle pressioni interne, per così dire, cioè al loro stesso senso del dovere e all’impegno dell’assunzione di specifiche responsabilità non solo aziendali ma anche etiche, sociali, umane e relative alla vita di lavoro in senso molto ampio. Vi è, inoltre, il fenomeno che ho denominato solitudine manageriale (Castiello d’Antonio, 2005) che sta ad indicare che numerose persone che vivono questo genere di vita sono di fatto sole ed isolate e, pur se circondate da colleghi, capi e collaboratori nell’ambito lavorativo, tendono ad essere diffidenti e a non volersi esporre, per timore di mostrare le loro fragilità.

Oltre alla generica condizione di distress vi sono diversi altri fenomeni che indicano la scarsa salubrità della vita che alla fine si conduce giorno dopo giorno nel lavoro; una di tali situazioni è la dipendenza da lavoro, il workaholism - molto diverso dal lavorare con entusiasmo (Castiello d’Antonio, 2016b) - spesso innescato dal clima organizzativo tipico delle imprese che vivono h24, le multinazionali che sono sempre attive in diverse parti del mondo ad ogni ora e giorno, caratteristica che conduce le persone a visualizzarsi come delle vere e proprie macchine da guerra, perennemente connesse (Castiello d’Antonio, 2020b).

Oggi, il mondo del lavoro esposto ai mercati e alla concorrenza è sempre più caratterizzato da imprese complesse, articolate, con basi in diverse zone del mondo, protese ad anticipare e a velocizzare in una sorta di guerra perenne con i competitori: ciò conduce i manager e i professional, pressati dalla necessità di realizzare i risultati, a fare sempre di più e sempre meglio, utilizzando risorse necessariamente limitate, con scarse opportunità e margini di previsione.

La spinta è quella di andare comunque avanti e prendere decisioni anche in situazioni poco chiare e con informazioni limitate, muovendosi in modo fortemente finalizzato: in contesti aziendali di tal genere l’MBO-Management by Objectives, la famosa direzione per obiettivi, è regola di vita, ma può rappresentare facilmente un ulteriore fattore di distress.

Situazioni organizzative di tal genere, nel momento in cui si coniugano con determinate tipologie di personalità e stili di lavoro, possono implementare il quadro delle difficoltà psicologiche vissute; ciò accade, ad esempio, a coloro che vogliono vedersi in termini machisti come esseri che non hanno bisogno di niente e di nessuno, che possono andare avanti da soli senza chiedere nulla.

Tipologie alla Wonder Woman e alla Super Man, che si accompagnano con la sindrome di John Wayne e con molto altro: tutte figure di palcoscenico, altamente drammatiche, che sono agitate e interpretate in quel teatro che è la vita socio-organizzativa (Mangham, Overington, 1987).

È, dunque, comprensibile che alcune di queste persone sentano, in una fase della loro vita, la necessità di richiedere un aiuto esperto rivolgendosi a un soggetto-terzo che non sia un familiare, un collega o un amico; un soggetto che sappia effettuare un intervento di sostegno, consiglio e/o di terapia, specifico e valido.

In situazioni come quelle di cui stiamo parlando non sono appropriati né sufficienti interventi come l’Executive Coaching, il Counselling psicosociale, né tantomeno la partecipazione ad eventi formativi tradizionali o a corsi di formazione sulla Mindfulness (oggi, peraltro, inquinata dalla moda): è necessario intervenire in modo assai più incisivo ed efficace (Castiello d'Antonio, d'Ambrosio Marri, 2013).

Vivere al limite

Tra le molte tipologie di manager e professional che tendono a vivere la loro vita al limite, o sul limite (tra la salute e il disagio psicofisico) si possono individuare le persone caratterizzate dall’atteggiamento pragmatico-concreto, dalla velocità nel visualizzare l’obiettivo e nel mettersi all’opera per conseguire i risultati, dal pensiero complesso ma, allo stesso tempo, compresso nei confini di tempo e di spazio che impone il ruolo e l’attività.

Subissati dai mille input che penetrano sulle ali delle ben note tecnologie dell’informazione e della comunicazione, queste persone tendono a vivere proiettate nel tempo immediato del domani (Baier, 2000), vedendosi come dei meccanismi di problem solving costantemente all’opera, senza riguardo per loro stessi in termini di ecologia personale e di vita di lavoro.

Ne consegue un forte auto-sfruttamento, la sensazione di non potersi tirare fuori da vortice - essere un criceto che gira nella ruota, come mi diceva un manager parecchio stressato - e di dover andare avanti senza mai voltarsi indietro: nel senso che i successi o le attività portate a termine sono ben presto messe via e dimenticate, e tutta l’attenzione è sempre e soltanto sull’oggi e sul brevissimo termine, sulle cose da fare per ieri, come spesso si dice.

In questo quadro esistenziale - che conduce alla figura dell’essere umano a una dimensione, quella del lavoro - può essere molto difficile per la persona notare e prendere in (seria) considerazione i primissimi segnali di allarme che, di regola, sono abbastanza soft: qualche difficoltà a prendere sonno, risvegli molto presto la mattina con il cervello che è già all’opera sugli impegni professionali, disturbi digestivi, un po’ di irritabilità, qualche lineamento ansioso e così via.

Il tutto viene ancora oggi, troppo spesso, liquidato con stress, parola magica che ha sostituito il vecchio esaurimento nervoso e che è stato denominato in molti altri modi significativi come (nel Nordamerica degli anni Cinquanta) il cuore del dirigente

Talvolta i medici sottovalutano queste situazioni, banalizzandole, oppure offrendo al paziente il farmaco sulla base di una reazione che appare ormai standardizzata, stante l’ampio panorama degli psicofarmaci oggi a disposizione: ansiolitici e stabilizzatori del tono dell’umore.

Questa soluzione può apparire benvenuta agli occhi del soggetto ed essere prontamente accolta senza dover fare la fatica di prendere in carico il proprio stile di vita (Castiello d’Antonio, 2014).

Ma la soluzione psicofarmacologica è insidiosa e potrebbe anche aggravare la situazione, congelandola nello status quo.

Senza contare che una soluzione di questo genere, rivolgendosi ad una persona che va alla ricerca di risposte pratiche ed immediate, con un limitato desiderio di mettersi in discussione, può apparire affascinante: l'idea è quella di poter risolvere il proprio momento di crisi sottoponendosi a una semplice cura medica, o curando soltanto i sintomi emergenti (ad esempio: la gastrite, l’insonnia).

Certamente, in alcuni casi può esserci la necessità di un supporto psicofarmacologico, ma esso non dovrebbe rappresentare mai l’unica e sola risposta alla sofferenza interiore della persona; se così fosse, si sarebbe in presenza di uno dei numerosi esempi di medicalizzazione del disagio mentale.

Ma ciò che sorprende è che tale medicalizzazione può avvenire anche nei confronti di persone altamente istruite, informate, attente al mondo; persone che, ipoteticamente, dovrebbero essere sensibilizzate nell’evitare di considerare il malessere psicologico come un fatto da eliminare sbrigativamente con qualche medicina.

In altri casi, la risposta che è offerta al soggetto in situazione di disagio lavorativo ed esistenziale è ancora più disarmante: prendere le ferie, fare un bel viaggio, iniziare a coltivare un hobby o, semplicemente, non pensarci!

Una volta si consigliava alle signore della borghesia metropolitana, annoiate e ansiate, di fare … la cura del sonno: oggi, da parte di alcuni, il consiglio non sembra poi così diverso.

Prendere in considerazione l’ipotesi di farsi aiutare

Il tentativo di sfuggire ad un reale confronto con sé stessi può assumere molte altre forme come quelle dell’auto-cura, del fai-da-te, dell’attribuire le difficoltà a una fase passeggera o all’ambiente esterno, del navigare in rete alla ricerca della magica soluzione terapeutica (con il probabile esito di riconoscersi nei quadri psicopatologici più drammatici), facendo sempre molta attenzione a non far trapelare niente all’esterno, difendendo fino allo stremo la propria immagine sociale e aziendale di perfetta padronanza.

Entrano qui in gioco importanti sistemi mentali orientati alla difesa del Sé, cioè i meccanismi di difesa psicologici (Lingiardi, Madeddu, 2023) che agiscono nel profondo, nell’area inconscia: tra questi meccanismi basterà citarne uno, esemplificativamente, la negazione: una modalità di reazione che si è vista all’opera in modo molto chiaro persino nel recente periodo della pandemia!

Negando la situazione di pericolo o di disagio si finisce con il non prenderla in considerazione, cioè con il far finta di nulla, come se tutto andasse perfettamente bene, scotomizzando ogni segnale di allarme (Castiello d’Antonio, 2009, 2016a).

In questo campo, come in molti altri della vita, la prevenzione non è particolarmente praticata!

E, infatti, l’occasione che spinge il manager e il professionista sovra-ingaggiato nel lavoro a ricercare un aiuto psicologico è fin troppo spesso l’evento acuto, il trauma, l’episodio di genere psicofisico, fino ai casi in cui la persona crolla improvvisamente, sviene nel luogo di lavoro; in altre occasioni si avverte la sensazione fortemente angosciosa di essere andato oltre, di essersi spinto troppo avanti, senza avere la possibilità di fermarsi, né di tornare indietro.

In altre occasioni ancora l’ansia blocca le normali attività di vita di lavoro, come nello sviluppo dell’aerofobia (Bor, van Gerwen, 2003; Castiello d’Antonio, 2006a).

Ricordo il resoconto di un medico di medicina d’urgenza che, trovandosi d’un tratto come paziente al pronto soccorso un suo conoscente di cui era risaputo l’importante ruolo aziendale, notava nel suo sguardo quella nota di incredulità e di smarrimento tipica di chi, all’improvviso, si trova tra la vita e la morte.

Non è facile fermarsi per persone che hanno combattuto duramente per giungere ove sono, che sono state valutate positivamente per arrivare in determinate posizioni (Castiello d’Antonio, 2020a); non è facile cogliere i segnali di allarme, riflettere ed evitare di rimanere intrappolati nel vortice delle cose-da-fare: segnali che fanno capire che è il momento di agire, ma di agire per sé stessi, non per l’organizzazione né per portare a casa i risultati di produttività.

La decisione e l’impegno verso sé stessi

La decisione di richiedere un aiuto (Castiello d’Antonio, 2018) rappresenta un passo difficile per persone che vedono la loro vita sotto il profilo dell’essere performanti, del posizionarsi in alto e al centro delle strutture, di governare gli altri e decidere per loro conto, guardandosi costantemente dalle situazioni insidiose di competizione interna (Castiello d’Antonio, d’Ambrosio Marri, 2019) e dai fenomeni del tipo il coltello nella schiena

Per la maggior parte delle persone rivolgersi allo psicoterapeuta rappresenta un passo delicato (Bartolomei, 2000; Castiello d’Antonio, 2022; Novellino, 1994) e ciò è ancor più vero per le figure collocate ai vertici e nei ruoli centrali e di prestigio delle organizzazioni e delle istituzioni.

Emergono le domande sul come fare, in che direzioni rivolgersi, a chi chiedere (in modo riservato), e, subito dopo, con quale spirito porsi alla ricerca di un aiuto senza per questo sentirsi deboli, fragili, inadeguati, addirittura falliti.

Stante l’ambivalenza con la quale la persona prende contatto con il terapeuta possono verificarsi situazioni di abbandono prematuro del percorso terapeutico, cioè di drop-out (Castiello d'Antonio, 2008).

In questa delicata fase la persona può sentirsi a disagio, non sopportare la riflessione e l’autoanalisi che richiede ogni buona psicoterapia, e chiedersi per quale motivo non si entra subito nel merito delle questioni (Castiello d’Antonio, 2014).

Emergono, quindi, le domande su come funziona la psicoterapia: in che modo una persona cambia ponendosi in relazione con il terapeuta e parlando di sé?

A domande di tal genere il paziente-manager spesso pretende una risposta netta e incontrovertibile. Si vorrebbe poter capire tutto e subito, andando dritti al nucleo del problema.

Si tratta di attese e di pretese che prendono corpo agli inizi dell’iter terapeutico ma che possono continuare nel corso della psicoterapia, prendendo la forma delle difese psicologiche ben note ai clinici (Freud, 1936).

Il timore diffuso in tale genere di pazienti è quello di mettersi nelle mani di uno sconosciuto; altri temono di diventare dipendenti dalla terapia - come se non fossero già dipendenti dalla loro sofferenza mentale.

Si tratta di timori che divengono ancora più forti nel momento in cui il professionista psicologo, in base all’impostazione teorico-tecnica che applica, non indica un piano terapeutico ben preciso (come, invece, accade nelle diverse forme di psicoterapia breve in cui si definiscono fin dall’inizio il tempo da dedicare al percorso e/o il numero delle sedute-colloqui). Ma non sempre la psicoterapia breve è la forma adeguata; può, quindi, essere inquietante la proposta di psicoterapie dinamiche di media-lunga durata, apparentemente prive di indicazioni e senza limiti temporali prestabiliti (Marchioro, 2013), viste pregiudizialmente ed erroneamente in modo meno favorevole rispetto agli orientamenti cognitivi e cognitivo-comportamentali.

Un importante aspetto relativo alle difficoltà che la persona può incontrare iniziando la psicoterapia è collocato nell’aspettativa di individuare semplici meccanismi di causa-effetto, che possano spiegare razionalmente la situazione, o nell’attesa della prescrizione: “Mi dica lei cosa devo fare!”

Anche l’attenzione al rapporto costi-benefici e l’urgenza di vedere il problema risolto - retaggio della velocizzazione - possono rendere ardua almeno la prima fase della psicoterapia.

L’aspirazione è quella di ottenere una sorta di programma terapeutico intriso di richieste come: “Mi assicuri che lei è capace di darmi ciò che mi aspetto”, “In quanto tempo ne uscirò fuori?”, e così via.

Tutte richieste legittime ma che, se poste in modo rigido e difensivo, possono pregiudicare ampiamente la fase iniziale di lavoro.

In tale ottica, accedere alla psicoterapia con in mente il paradigma medico - il paziente che si siede di fronte al medico, elenca i sintomi e riceve la prescrizione - è completamente fuorviante.

Infine, un importante aspetto che attiene alla competenza ed esperienza del terapeuta è costituito dall’insieme delle conoscenze di psicologia delle organizzazioni, psicologia clinica e psicopatologia, ma è necessario avere anche la competenza clinico-organizzativa e psicodinamica per comprendere le dinamiche socio-organizzative nelle loro dimensioni fisiologiche e patologiche: ciò significa comprendere le psicopatologie organizzative (Kets de Vries, Miller, 1984) non meno di quelle individuali (Castiello d’Antonio, 2013; Castiello d’Antonio, d’Ambrosio Marri, 2017), tenendo ben presente che il manager/professional è, come tutti, un essere vivente a razionalità limitata, inserito in un mondo del lavoro solo apparentemente razionale (Kets de Vries, 1999; Stapley, 2006).


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Tratto da "Personale e Lavoro Rivista di cultura delle Risorse Umane - n° 661 - Dicembre 2023"
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