Area
Diritto del Lavoro

Topic
Mobbing

Maurizio de la Forest de Divonne

N° 13

22 aprile 2020

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Affinché l’azienda sia tenuta a risarcire i danni da mobbing il lavoratore deve provarne tutti gli elementi costitutivi, compreso l’intento persecutorio

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza dell’11 dicembre 2019 (Cassazione, sez. lav., n. 32381), ha ribadito quali sono gli elementi costitutivi del c.d. mobbing. Nel dettaglio, la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto: “Il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorrano due elementi: quello oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo, integrato dall’intendimento persecutorio del datore medesimo; quest’ultimo richiede che siamo posti in essere atti, contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente dal datore o di un suo preposto o di altri dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi due”.

L’intervento della Cassazione (la quale ha, peraltro, confermato la giurisprudenza già formatasi sul punto: cfr., tra le altre, Cassazione, 6 agosto 2014, n. 17689; Cassazione, 17 gennaio 2014, n. 898) si rivela di particolare importanza: manca, infatti, nel nostro ordinamento una tipizzazione di tale fattispecie da parte del Legislatore, che ha, quindi, di fatto, demandato alla giurisprudenza il compito di colmare tale lacuna normativa.

Il caso di specie riguarda un dipendente di un istituto di credito, vittima, a suo dire, di condotte vessatorie esercitate da parte del datore di lavoro. Tali condotte si sarebbero concretizzate, secondo la prospettazione del dipendente, nel mancato riconoscimento di avanzamenti di carriera, nella formulazione di diverse contestazioni disciplinari, poi rimaste inattuate, nonché nella richiesta (non supportata, ad avviso del dipendente, da reali ragioni organizzative) di effettuare missioni e distacchi rispetto alla propria sede di lavoro. Quanto sopra sarebbe stato aggravato, seguendo la tesi del dipendente in questione, dal fatto che costui fosse genitore di un figlio con disabilità, con conseguente accesso alle agevolazioni di cui all’art. 33, comma 5, L. n. 104/1992: il lavoratore avrebbe, pertanto, avuto il diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e il datore di lavoro non avrebbe potuto trasferirlo, senza il suo consenso, ad altra sede.

In entrambi i giudizi di merito, la domanda del lavoratore è stata respinta, così come il ricorso dallo stesso proposto avanti alla Corte di Cassazione. Quest’ultima, con la sentenza oggetto di commento, ha, infatti, evidenziato come il provvedimento del Giudice di appello fosse adeguatamente motivato nella parte in cui ha ritenuto non dimostrati, da parte del prestatore di lavoro, gli elementi integranti il mobbing.

Come osservato in premessa, all’interno del nostro ordinamento non esiste una fonte di diritto positivo che disciplini in modo specifico il mobbing. La giurisprudenza è solita individuare la fonte di responsabilità per le condotte di mobbing nell’art. 2087 cod. civ., che impone al datore di lavoro di preservare l’integrità fisica e morale dei lavoratori, nonché di garantire un ambiente di lavoro atto a salvaguardare il benessere degli individui.

In termini generali, il mobbing costituisce una condotta vessatoria, esercitata in modo abituale e con un preciso intento persecutorio, posta in essere da parte del datore di lavoro o da suoi preposti, volta a ledere l’integrità psico-fisica di un lavoratore (mobbing c.d. verticale). Il mobbing può, però, anche essere perpetrato nell’ambito dei rapporti tra colleghi (in tal caso si parla di mobbing c.d. orizzontale). Sussiste, poi, il c.d. bossing ogniqualvolta le condotte poste in essere a danno del lavoratore siano finalizzate a estrometterlo dall’azienda.

Entrando nel dettaglio, la giurisprudenza ha, nel tempo, individuato specifici elementi costitutivi integranti la fattispecie del mobbing: a) la reiterazione di una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti ma anche leciti ove singolarmente considerati, posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta e l’evento; d) l’intento persecutorio (cfr., oltre alla sentenza in commento, Cassazione, sez. lav., 06 agosto 2014, n. 17698).

La Suprema Corte ha posto in particolare risalto, nella sentenza in commento, proprio tale ultimo elemento psicologico: l’intento persecutorio costituisce, infatti, il fattore idoneo a unificare i singoli atti perpetrati a danno del lavoratore mobbizzato e a farli convergere in un più ampio disegno intenzionalmente vessatorio, tale da integrare il mobbing. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che: “l'elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell'intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria” (Cassazione, 10 novembre 2017, n. 2668).

Pertanto, ai fini del perfezionamento della fattispecie in esame, non è sufficiente la mera reiterazione di condotte di natura molesta, ma è necessario che le stesse (lecite o illecite che siano, ove singolarmente considerate) siano caratterizzate dall’unicità dell’intento persecutorio (il c.d. animus nocendi), il cui onere della prova grava sul lavoratore che si ritiene mobbizzato.

Naturalmente, qualora l’elemento psicologico sia ritenuto assente, con conseguente insussistenza del mobbing, resta ferma l’eventuale illegittimità delle singole condotte poste in essere, laddove le stesse siano riconducibili ad altre ipotesi di responsabilità.

Anche i Giudici di merito si sono uniformati all’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità. Così come affermato il mese scorso dal Tribunale di Milano (2 dicembre 2019, n. 1515), “Affinché possa configurarsi il c.d. ''mobbing lavorativo'', devono ravvisarsi comportamenti del datore di lavoro, anche protratti nel tempo, che siano rivelatori in maniera inequivocabile di un'esplicita volontà di quest'ultimo di emarginare il dipendente. Occorre pertanto dedurre e provare la ricorrenza di una pluralità di condotte, anche di diversa natura, tutte oggettivamente volte all'espulsione dal contesto lavorativo, o comunque connotate da un elevato tasso di vessatorietà e prevaricazione, nonché soggettivamente sorrette da un intento persecutorio e tra loro collegate dall'unico scopo di isolare il dipendente”.

Sotto il profilo della casistica giurisprudenziale, è stato ricondotto nell’ambito del mobbing, a mero titolo esemplificativo, l’esercizio congiunto delle seguenti condotte: emarginazione, demansionamento, forzata inattività, denigrazione, dequalificazione e discriminazione professionale (cfr. Cassazione 8 gennaio 2016, n. 158 e Cassazione 7 agosto 2013, n. 18836).

In conclusione, alla luce della pronuncia della Corte di Cassazione in commento, affinché l’azienda datrice di lavoro sia chiamata a rispondere per mobbing, non basta che il dipendente dimostri il solo elemento oggettivo della fattispecie, ma è necessario che costui provi che il datore di lavoro, i suoi preposti o gli altri dipendenti siano stati animati da uno specifico intento persecutorio (il c.d. animus nocendi).

Si tratta di un onere probatorio che, proprio poiché attiene a profili di carattere soggettivo, risulta tutt’altro che agevolmente dimostrabile in giudizio.

Commento a cura dell’Avv. Maurizio de la Forest de Divonne

Tratto da "Sentenze e Commenti" - Gennaio 2020 - Uno dei servizi dell'Abbonamento ISPER