Onere di repêchage
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo il datore di lavoro deve provare di aver prospettato al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori
La Corte di Cassazione è recentemente tornata a occuparsi del dibattuto tema dell’onere della prova in materia di repêchage.
In particolare, con la sentenza n. 29100 dell’11 novembre 2019, la Corte ha statuito che “in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale”.
Nel caso in esame, la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Ancona, che aveva accertato l’illegittimità del licenziamento intimato a un lavoratore.
Il licenziamento è stato ritenuto illegittimo in quanto l’azienda non ha provato di aver offerto al dipendente mansioni anche inferiori, con conseguente mancato assolvimento dell’obbligo di repêchage.
In particolare, i Giudici hanno respinto la censura dell’azienda relativa al preteso inadempimento del lavoratore, nel corso del giudizio, dell’onere di allegare l’esistenza di un posto cui la Società avrebbe potuto adibirlo, in alternativa al licenziamento.
Ad avviso della Corte Suprema, infatti, spetta al datore di lavoro provare l’impossibilità di repêchage con riferimento alla situazione esistente al momento del licenziamento, dovendo sia allegare, sia dimostrare l’insussistenza di altri posti lavorativi in cui collocare il dipendente.
Viceversa, la mancanza di allegazioni, da parte del lavoratore, circa l’esistenza di una posizione disponibile può, piuttosto, corroborare il quadro probatorio circa l’impossibilità di adibire quel dipendente altrove (purché, naturalmente, tale impossibilità sia dimostrata in base a presunzioni gravi, precise e concordanti); non è, però, ammissibile uno spostamento dell’onere della prova del relativo obbligo, che grava, pur sempre, sul datore di lavoro (ex plurimis Cass., Sez. Lav., n. 26240 del 17/10/2019).
La pronuncia in esame ha ad oggetto un principio di diritto ormai consolidato (cfr., tra le molte, Cass. n. 31653 del 6/12/2018; Cass. n. 4509 dell’8/3/2016), secondo il quale costituisce onere del datore di lavoro fornire la prova dell’impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell’impossibilità di reimpiegare utilmente il lavoratore licenziato in mansioni alternative, compatibili con la sua professionalità.
L’istituto, di creazione giurisprudenziale, consegue al fatto che la prova del giustificato motivo oggettivo del licenziamento grava sul datore di lavoro, in virtù del disposto dell’art. 5 L. n. 604/1966.
La ratio è garantire il bilanciamento tra, da un lato, l’efficienza dell’organizzazione produttiva dell’azienda, e, dall’altro lato, il diritto del lavoratore a non vedersi licenziare se non quando il suo reimpiego sia del tutto impossibile, così che il recesso si configuri solo come extrema ratio.
Sulla base di tale presupposto, la Suprema Corte ha arginato recenti pronunce giurisprudenziali che erano giunte ad individuare un onere di allegazione in capo al lavoratore in merito all’obbligo di repêchage.
Esigere che sia il dipendente licenziato a indicare dove e come l’azienda avrebbe potuto e dovuto ricollocarlo significa, se non invertire sostanzialmente l’onere della prova, quanto meno scindere fra loro onere di allegazione e onere probatorio, addossando il primo ad una delle parti in lite e il secondo all’altra.
Tuttavia, ad avviso della Corte, onere di allegazione e onere probatorio non possono che incombere sulla medesima parte, nel senso che chi ha l’onere di provare un fatto primario ha altresì l’onere della relativa compiuta allegazione (in tal senso, da ultimo, Cass., Sez. Lav. n. 1889 del 20/01/2020).
Tanto la Corte di Appello, tanto la Suprema Corte, con la sentenza in commento, hanno rietenuto che la società non avesse fornito la prova dell’impossibilità di impiegare il lavoratore in un altro posto di lavoro, con assegnazione di mansioni anche inferiori; in altri termini, è stato ritenuto assente il presupposto per l’accertamento di un consenso del lavoratore a quanto, appunto, neppure offerto.
Ad analoghe conclusioni sono giunti gli Ermellini con un’altra recente sentenza (la n. 29099 del medesimo 11 novembre 2019).
In tale occasione è, invece, stato ritenuto legittimo il licenziamento intimato a un lavoratore, in seguito all’esternalizzazione dell’attività di vendita dal medesimo svolta, proprio in quanto a quest’ultimo era stata previamente offerta l’unica mansione alternativa, di livello inferiore, la quale è stata dal medesimo rifiutata.
È opportuno evidenziare che è stato recentemente statuito altresì che, ai fini dell’obbligo di repêchage, non è necessario che siano offerte al dipendente tutte le mansioni inferiori esistenti nell’ambito dell’organigramma aziendale; viceversa, occorre prendere in considerazione le mansioni compatibili con il bagaglio professionale del lavoratore (ossia quelle che non siano del tutto disomogenee e incoerenti con le sue competenze) ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza, in modo tale che non ne derivi un onere di formazione a carico dell’azienda (v., in tal senso, Cass., Sez. Lav., n. 31521 del 3/12/2019).
In conclusione, prima di procedere al licenziamento per motivo oggettivo di un dipendente, è opportuno che il datore di lavoro verifichi attentamente se sussistano, nell’ambito dell’assetto organizzativo aziendale, mansioni di pari livello o di livello inferiore, che possano essere utilmente assegnate al dipendente, in alternativa al provvedimento espulsivo. Laddove il lavoratore interessato rifiuti l’assegnazione di tali mansioni, anche qualora l’assegnazione stessa comporti un demansionamento, il datore di lavoro può procedere al recesso dal rapporto.
In tal caso, occorre tenere in considerazione due utili consigli pratici: in primo luogo, è opportuno che il rifiuto del dipendente risulti da una comunicazione scritta, o quantomeno che il rifiuto stesso sia formulato in presenza di testimoni (trattasi, infatti, di circostanza che dovrà essere provata in giudizio dall’azienda); in secondo luogo, eventuali assunzioni effettuate nel medesimo arco temporale nel quale ha avuto luogo il licenziamento, per mansioni che il datore di lavoro avrebbe potuto (e dovuto) offrire al lavoratore licenziato, rischiano di inficiare, di per sé, la legittimità del licenziamento del dipendente. Osservati tali due accorgimenti, è più facile che il licenziamento (purché fondato su un presupposto oggettivo effettivo) sia ritenuto legittimo in giudizio.
Tratto da "Sentenze e Commenti" - Febbraio 2020 - Uno dei servizi dell'Abbonamento ISPER