Area
Cultura delle Risorse Umane

Topic
Competenze

Silvana Appiano e Giorgio Gatti

N° 2

31 gennaio 2020

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La Competenza e l’Università

La crisi della competenza, cause e conseguenze

La crisi della competenza e per conseguenza degli "esperti" e (in alcuni paesi in particolare) dei sistemi elettorali democratici, sta diventando un tema fra i più dibattuti e raccontati a livello internazionale, anche in ragione dei cambiamenti in corso nel mondo, in particolare le trasformazioni epocali della tecnologia, dell'economia e delle strutture sociali verificatesi in questi ultimi anni ed ancor più prevedibili nel prossimo futuro.

In questo proliferare di lavori, spesso di ottimo livello, sentiamo però la mancanza della definizione univoca di due concetti quali competenza e tecnologia, senza i quali, quella che viene definita crisi, rischia di subire influenze ed interpretazioni non sempre omogenee. Di conseguenza, lasciando ad altri più autorevoli il compito di uniformare il significato dei due termini, ci pare doveroso premettere i nostri criteri, ripescando, per il concetto di competenza, quello utilizzato nelle organizzazioni, come somma di tre forme del sapere: conoscenza, capacità (saper fare) e saper essere, concetto che rende la trasmissione della competenza più complessa e plurale di quanto non si pensi ed ancor più influente e condizionante. Forse con tale definizione si rischia di rendere ancor più preoccupante quella che gli studiosi come Tom Nichols hanno ormai battezzato "crisi della competenza" ma, vista la severità con cui questi studiosi e le ricerche che li supportano descrivono il problema, direi che la nostra scelta non dovrebbe influire in tal senso. Così come l'intendere la tecnologia prevalentemente come innovazione nei campi (ICT e scienze biologiche) che più incidono sul sistema sociale, ci sembra coerente con il vasto materiale riguardante l'argomento in oggetto.

Diciamo piuttosto che la crisi della competenza è un fenomeno complesso, composto da diverse forme di "cambiamento traumatico" originate da una pluralità di cause e causa, esso stesso, di diversi effetti: crisi degli esperti e delle èlites, crisi della comunicazione e dell'informazione, crisi dell'apprendimento e dell'istruzione, dei sistemi elettorali e della politica, per elencare solo i principali.

La negazione dell’evidenza scientifica, la contestazione degli esperti e degli intellettuali è ampiamente documentata da ricerche e da numerose pubblicazioni oltre che evidenziata da eventi eclatanti (come la contestazione dei vaccini, così estrema da generare un "movimento no vax" o la circolazione di convinzioni palesemente incredibili come quella che la terra sia piatta!). É una realtà accettata e difficilmente rimediabile, ormai, che rischia di produrre danni di grande entità, basti pensare a quanto succede nei confronti dei sistemi elettorali ed al rifiuto della Politica, interpretata in modo distorto con conseguenze potenzialmente assai negative per la tenuta del nostro sistema democratico.

La crisi della comunicazione è anch'essa un effetto della ridondanza di notizie, indotta dall'innovazione tecnologica, dalle difficoltà di memorizzazione e comprensione che provocano una caduta della fiducia nei media (un sondaggio Gallup del 2014 rilevò che soltanto 4 americani su 10 contano sul fatto che i media riportino le notizie "integralmente, in modo accurato ed imparziale") che a sua volta provoca una ricerca non più di informazioni ma di conferme. Quando poi la comunicazione diviene dibattito, specie se pubblico, si trasforma in "guerra di trincea" il cui obiettivo principale è stabilire che gli altri sbagliano.

La crisi dell'apprendimento, oggetto anche questa di numerose pubblicazioni e dibattiti, è comunque rilevabile attraverso una pluralità di indicatori: il numero degli iscritti all'Istruzione superiore andato riducendosi, dal 2003 ad oggi, di circa il 20%; la crescita dell'abbandono scolastico (dal 13,8 al 14% tra il 2016 e il 2017 l'uscita precoce dal sistema scolastico in Italia, contro una media europea scesa al 10,6%, secondo i dati BES 2018); il ritardo della scuola italiana nell'accogliere le innovazioni tecnologiche utilizzabili per rafforzare le metodologie educativo/formative, si vedano, ad esempio, i dati BES sulla partecipazione alla Formazione continua (8,3 nel 2016 sceso a 7,9% nel 2017 in Italia, contro il 10.9% dell'UE). Le criticità rilevate riflettono la difficoltà di conciliare strutture, metodi e competenze lungamente consolidate con le trasformazioni altrettanto profonde della società, del sistema economico e della tecnologia.

La crisi dei sistemi elettorali e della politica è la conseguenza della caduta nella fiducia verso gli esperti e verso i mutamenti subiti dalla competizione elettorale e dagli strumenti e metodi di propaganda elettorale, che hanno prodotto risultati imprevisti e pericolosi, in particolare nelle società democratiche. Le fake news, i casi di hackeraggio, la violenza dei dibattiti televisivi, la diffamazione in rete, sono divenuti anche troppo conosciuti al pubblico con i risultati sorprendenti e preoccupanti di cui sopra.

La fine della competenza, come scrive Nichols "è un problema diverso rispetto al dato storico dei bassi livelli di informazione tra i profani. La questione non è l'indifferenza di fronte ai saperi consolidati; è l'emergere di un'ostilità assoluta nei confronti di tali saperi". L'avversione nei confronti dei saperi è fenomeno recente e nuovo, sviluppatosi rapidamente in questo periodo sulla spinta degli attuali strumenti comunicativi fra i quali pesano indubbiamente Internet e le reti ma più ancora, a nostro avviso, pesano i comportamenti delle Istituzioni cui è affidata l'istruzione e l'educazione della popolazione, prima fra tutte, l'Università per la sua duplice natura di madre e gestrice dei saperi.

L'Università in Italia: soggetto e oggetto della crisi

L'Università è ricerca ed istruzione cioè creazione, trasmissione ed applicazione della competenza, per questo la crisi sopra descritta produce un effetto almeno duplice su questa Istituzione che in Italia risale al Medio Evo, forse non casualmente. Le funzioni principali sono indubbiamente la ricerca, la creazione di esperti, la formazione e l'insegnamento, l'assistenza alle strutture economiche, l'ascensore sociale.

L'Università è quindi il luogo fondamentale per quella che è l'immagine, il valore, la diffusione della competenza, può far crescere tale valore o svilirlo e questo la rende corresponsabile della crisi attuale. In particolare, a nostro avviso, le criticità dell'Università che maggiormente incidono sulla crisi della competenza sono:

  1. l'individualismo "specialistico e non" degli esperti: sono molti i settori che, anche a fronte di una crescente complessità, presentano esigenze che, per essere adeguatamente affrontate, richiedono l'utilizzo integrato di competenze diverse, spesso con la composizione di gruppi di lavoro interdisciplinari (si pensi al settore sanitario o all'economia aziendale) cui spesso i docenti e gli specialisti di discipline tradizionali si oppongono a difesa del proprio prestigio e dei propri carichi di lavoro e, a volte, anche dei propri interessi;
  2. la carenza di risorse finanziarie, tecnologiche ed umane: si pensi al recente rapporto sull'Istruzione realizzato dall'Osservatorio sui conti pubblici, presieduto da Carlo Cottarelli, nel quale l'Italia risulta all'ultimo posto nell'UE per finanziamenti all'Università con lo 0,3% del PIL contro una media dell'Unione dello 0,7%, con una spesa complessiva di 66 miliardi l'anno (meno di quanto paghiamo per gli interessi sul debito pubblico), con una percentuale di laureati che in Italia è ferma al 21% della popolazione contro il 34,5% della media UE, il tutto corredato, in apparente controsenso, da una "fuga dei cervelli" del costo di oltre 14 miliardi;
  3. i meccanismi inaffidabili di carriera: la maggior parte di coloro che sono entrati ed entrano in contatto con la Pubblica Amministrazione provenendo dal settore privato o dal terzo settore, pur se spesso disposti a rivedere positivamente i pregiudizi sul personale pubblico, hanno quasi sempre vissuto con avversione, quasi con fastidio, i concorsi e le barriere burocratiche considerati, dalla Pubblica amministrazione, Università compresa, come strumenti per tutelarsi dalla Corte dei Conti e per non assumere responsabilità individuali. Perché complicare una procedura di selezione, quando i responsabili del reclutamento hanno la certezza di avere individuato la persona giusta e perché farlo per arrivare poi alla stessa conclusione, dando l'impressione di aver dato vita ad un rituale con finalità non sempre coincidenti con quelle dichiarate. I risultati si vedono con il numero delle immatricolazioni che dal 2003/4 al 2017/8 sono calate del 13%; le Università italiane non solo hanno perso oltre 40.000 iscritti ma non sono riuscite a contenere la "fuga dei cervelli", il cui numero ha continuato a crescere in modo impressionante;
  4. una collaborazione con le imprese ed i soggetti economici non sistematica, bensì occasionale e personalizzata: anche se si riscontrano casi molto positivi di collaborazione fra l'istruzione superiore e le imprese, sicuramente non sono sufficienti a rispondere in modo positivo sia alla domanda che all’offerta di professionalità. Complessità amministrative e lentezze, ad esempio, nei finanziamenti, sono spesso l'oggetto di critiche che sottendono le difficoltà originate da una normativa più orientata all'adempimento dei compiti istituzionali che al conseguimento del risultato;
  5. la debolezza dell'ascensore sociale: i dati dell'Istat e del Centro Studi di Community Group indicano che la percezione di appartenenza ad una classe sociale sia identica a quella di 5 anni fa, tale percezione è poi confermata dalle valutazioni espresse sul funzionamento dell'ascensore poiché il 73,3% degli italiani lo ritengono fermo sempre allo stesso piano per tutto il periodo dal 2014 al 2019. Indubbiamente la staticità dell'ascensore sociale non può che riflettersi negativamente sui risultati dell'Università e sul rapporto fra la stessa ed i suoi studenti;
  6. una comunicazione verso l'esterno più "marketing oriented" che volta a valorizzare le competenze: anche per l'Università italiana può valere quanto ancora Tom Nichols scrive per l'Istruzione superiore USA: "La trasmissione di importanti conoscenze culturali (che comprendono di tutto, da come costruire un'argomentazione logica, al DNA, fino alle basi della cultura americana) non è più la missione dell'Università, ormai ridotta a un servizio clienti". Anche se gli Atenei italiani non hanno i problemi di concorrenza di quelli americani, subiscono, almeno in parte, questa trasformazione "marketing oriented" per difendersi da una conflittualità crescente con gli studenti e con le loro famiglie e per rinsaldare i rapporti con le Istituzioni e con le imprese;
  7. confusione di ruoli e reciproca intromissione con la Politica: da sempre in Italia i docenti hanno potuto fare politica, a volte con successo (molti anche acquisendo incarichi istituzionali importanti nei ministeri, nelle Regioni o in Parlamento), a volte con reciproca delusione. Purtroppo nel nostro paese “fare Politica” vuol dire spesso adesione ad un partito, con il rischio di subire influenze e pressioni non sempre coerenti con la propria professionalità e con le competenze scientifiche acquisite ed espresse nelle collaborazioni che vengono richieste. Inoltre si ha la sensazione che i docenti universitari, in alcuni casi, abbiano usato questo rapporto con la Politica a difesa degli interessi di categoria.

Etica, competenza e Università

Forse il peso che l'etica può avere oggi è certamente inferiore al passato, vista la crescente manipolazione che della stessa si fa sui media e specialmente sulle reti dominanti, tuttavia un luogo come l'Università deve tener conto dei valori morali che dovrebbe insegnare e divulgare, pena la perdita di credibilità ed il conseguente svilimento di quella competenza oggetto della nostra riflessione. Ma se la formazione e l'insegnamento sono legate alla diffusione di valori morali che gli esperti e i docenti devono perseguire, allora uno degli strumenti principali dell'insegnamento è, a nostro avviso, l'esempio, atto a chiarire e rafforzare i concetti trasmessi ed a guadagnarsi quella credibilità che, per l'assimilazione dei concetti, risulta indispensabile. Gli studenti ed i collaboratori temporanei sono stanchi di assistere a concorsi dei quali, quasi sempre, si può conoscere l'esito in anticipo. Concorsi che vengono vinti dai colleghi che, avendo avuto l'aiuto di un docente promotore, possiedono molte pubblicazioni ottenute a pagamento con i soldi dell'Università, quelle stesse pubblicazioni cui la Commissione di Concorso ha concesso il massimo peso tra i fattori di valutazione.

Corollario del concetto di esempio è quello di merito che ogni tanto ritorna nei discorsi dei politici e che, in un paese dove la ribellione dei giovani ricercatori contro l'arroganza dei "baroni" si è espressa in ogni settore, da quello delle interviste e delle dichiarazioni pubbliche, a quello della letteratura ed anche del cinema, approfondire e concretizzare tale concetto sarebbe quanto mai utile, a patto che lo si faccia seriamente, che si consideri il merito come la salute, che va introdotta "in tutte le politiche" perché non basta curare i malati ma bisogna prevenire le malattie. Il merito assume importanza se lo si riscontra nei comportamenti di chi ha il potere, se la giustizia è veramente un valore rispettato da tutti i cittadini, se la Scuola fin dalle elementari insegna che la valutazione non è un'offesa e se i Sindacati la smettono di considerare la parola merito solo come l'equivalente di "premio in denaro".

Così le risposte a queste criticità diventano indispensabili, perché non si può pensare ad una società del futuro senza pensare ai cambiamenti necessari in termini di competenza e non si può pensare alla competenza senza pensare alla ricerca ed alla applicazione e traduzione operativa delle diverse conoscenze che la nuova società e le nuove tecnologie mettono a disposizione.

Conseguenze

Se quanto sopra scritto ha un senso, ne consegue che l'Università italiana ha bisogno di una riorganizzazione che crei le condizioni per incidere, in modo significativo, sui territori di riferimento e sul "sistema paese", creando occasioni e capacità di sviluppo, con particolare riferimento al lavoro ed alla occupazione. Al contempo necessita di un "bagno di credibilità" attraverso l’adozione di strumenti “antidoto” alla insindacabilità dei docenti e strumenti di valutazione del merito e dei risultati, trasparenti e condivisi dalla pluralità delle risorse umane operanti nell'ambito universitario. È pur vero che, come scrive Carlo Scarpa "la misurabilità dell'output dell'università rappresenta un problema non banale" perché "il problema di queste misure è che non è del tutto chiaro che indichino effettivamente una mancanza da parte del sistema universitario" e perché le finalità da misurare sono più d'una e perché per tutte, vi è sempre un concorso di responsabilità. Anche Scarpa comunque, nella sua recente ricerca di una maggiore efficienza del sistema nel suo complesso, prova a proporre soluzioni in buona parte condivisibili quando, giungendo alle conclusioni, scrive: "dare la possibilità all'ateneo di gestire le carriere dei docenti in modo più incisivo di quanto avvenga adesso, richiedendo che la produttività dei docenti sia soggetta a verifiche vere e non solo formali", sino ad introdurre il principio della licenziabilità dei docenti che non mantengono standard adeguati. E ancora, dal momento che sono i singoli docenti a decidere che cosa insegnare, con conseguenti difficoltà anche nella pianificazione degli studi, potrebbe essere importante accrescere il potere dei Dipartimenti, dando loro la possibilità di ampliare l'utilizzabilità dei docenti anche al di fuori del ristretto settore scientifico-disciplinare.

Proposte importanti non solo perché potrebbero far crescere l'efficienza del sistema, ma perché potrebbero costituire un segnale di cambiamento in termini di gestione del potere e di organizzazione interna agli Atenei.

Ma non basta, un'altra area di intervento importante dovrebbe consistere nell'opportunità di ridurre ulteriormente l'isolamento interno ed internazionale delle Università, ad esempio, utilizzando forme di Bilancio Sociale condivise con altri attori responsabili di un territorio o di un settore produttivo.

In estrema sintesi occorrerebbe una riorganizzazione che sia di fatto una riforma capace di rivedere profondamente il ruolo dell'università, partendo dalle tre finalità fondamentali (ricerca, insegnamento e sviluppo sociale) per concentrare il potere e le risorse finanziarie ed intellettuali sui cambiamenti capaci di modificare, significativamente, non solo il modo di operare, ma soprattutto quello di essere.

Tratto da "Personale e Lavoro - Rivista di cultura delle Risorse Umane" n. 618 Gennaio 2020 - ISPER